Angeli tra le macerie, nel nome di ogni bambino a cui è stata violata l’infanzia. I volti dell’innocenza

Ci sono notti in cui il silenzio della coscienza pesa più forte del fragore assordante delle bombe. Sono le notti in cui il pensiero corre verso quei piccoli volti che non conosceranno mai l’infanzia come dovrebbe essere: una stagione di gioco, di stupore e di carezze. Bambini che nascono già dentro il rumore della guerra, che respirano polvere invece di aria, che imparano il pianto prima ancora della parola. Angeli tra le macerie: così li vediamo, distesi sul suolo ferito di città che non hanno più case, con gli occhi chiusi troppo presto, con le mani strette ancora in un gesto che chiede protezione.

“Ogni bambino che muore di fame oggi è stato assassinato”, scriveva Jean Ziegler. E lo stesso vale per ogni bambino che muore sotto le bombe, ogni bambino che non ha avuto la possibilità di crescere, di scoprire la luce di un’alba. La guerra non conosce innocenza, eppure è proprio l’innocenza che colpisce più duramente.

A Gaza, tra i resti di un quartiere ridotto a polvere, qualcuno ha trovato una bambola stretta tra le braccia di una bambina di sei anni, morta con il suo giocattolo come fosse l’ultima difesa contro l’orrore. Si chiamava Miriam. I vicini raccontano che sognava di diventare maestra, che amava scrivere le lettere dell’alfabeto sulle pietre con un gessetto trovato per strada. Ora il suo gessetto è spezzato. Non traccerà più nessuna parola.

Un’altra madre, portando in braccio il corpo del figlioletto Omar, raccontava con voce spezzata: “Mi chiedeva ogni sera di raccontargli una favola, ma io non avevo più favole da dargli. Solo rumori di bombe, solo buio.” Nel suo pianto, c’era tutta la disperazione di chi non ha potuto proteggere il proprio bambino.

E in Israele, un altro bambino, Yoni, di appena dieci anni, ha imparato a riconoscere il suono delle sirene meglio delle note di una canzone. Vive con lo zainetto pronto accanto al letto, pieno di biscotti e acqua, perché “non si sa mai quando bisogna correre nel rifugio”. Sua madre racconta che la prima parola che ha imparato non è stata “gioia”, ma “paura”. E anche questo è un crimine che pesa sulla coscienza del mondo.

I bambini sono anime innocenti; angeli puri, costretti alla vita dannata. E non importa se siamo bambini di Gaza o bambini di Israele: sono bambini! 

E tra questi c’era anche Lina, 8 anni, che amava disegnare il mare pur non avendolo mai visto. Nel suo quaderno, rimasto intatto sotto le macerie, le onde erano blu e i pesci pieni di colori. “Un giorno andrò a nuotare”, diceva al fratellino. Non ha fatto in tempo. Il mare che sognava resterà solo in quelle pagine e tutti i sogni li ha portati con sé.

In un villaggio vicino a Rafah, i soccorritori hanno trovato accanto a un corpo piccolo una scarpa rosa con i lacci sciolti. Apparteneva a Noor, 5 anni. La sua madre urlava tra la polvere: “Non aveva ancora imparato ad allacciarsi le scarpe da sola!”. È una frase che pesa più di qualsiasi trattato, perché racconta l’infanzia interrotta, la vita fermata prima ancora che potesse diventare vita piena.

A Tel Aviv, nel parco che un tempo risuonava di risate, la piccola Shira, 7 anni, non vuole più andare sull’altalena. Ha visto cadere un missile poco lontano dal quartiere e da allora tiene stretta la mano del padre, anche quando dorme. “Non lasciarmi, papà”, ripete nel sonno. Non dovrebbe conoscere questa paura, non a sette anni.

A Sderot, una bambina di nome Yael ha chiesto al padre: “Papà, se arrivano i missili, chi mi sveglia nel rifugio?”. Non voleva addormentarsi, per paura di non svegliarsi più. Una bambina di otto anni che ha paura di dormire: è già stata derubata del bene più semplice dell’infanzia.

E poi c’è Daniel, 11 anni, che ha perso la sorellina di tre anni durante un attacco improvviso. “Le stavo leggendo una storia”, racconta, “e non ho fatto in tempo a chiuderle gli occhi”. La colpa che porta addosso non è colpa sua, ma gli resterà per sempre, perché un bambino non dovrebbe mai sopravvivere alla sorellina.

Sono storie che non finiscono sui giornali, che non rientrano nelle analisi geopolitiche, ma che restano come ferite aperte, come schegge impossibili da estrarre.

E questa non è la prima volta che l’umanità si trova davanti a questo scandalo e, purtroppo, non sarà neppure l’ultima. Victor Hugo, ne “I miserabili”(1862), scriveva: “La guerra, una volta scoppiata, si attacca agli uomini come la peste e non li lascia finché non li ha logorati”. E chi, più degli innocenti, paga il prezzo di questo logoramento?

I bambini non conoscono le ragioni geopolitiche, non comprendono le dispute territoriali, non distinguono tra “noi” e “loro”. Essi vedono solo il crollo delle mura che li circondavano, l’assenza di chi non c’è più, il vuoto che si apre nei loro giochi interrotti. Quante ninna nanne si spengono nel rumore dei bombardamenti? Quante favole restano sospese a metà perché il sonno è stato strappato da sirene e urla?

Nella sua “Lettera a un bambino mai nato”(1975), Oriana Fallaci immaginava di parlare con una vita fragile, chiedendosi se fosse giusto metterla al mondo in un universo così crudele. Oggi quella domanda torna con un’eco ancora più potente: che mondo stiamo costruendo, se l’infanzia diventa polvere?

Non è solo la morte fisica a cancellare i bambini di Gaza. È anche l’indifferenza. Perché ogni bomba esplosa lì, ogni corpo piccolo raccolto tra le rovine, non è solo un fatto locale: è una ferita alla coscienza del mondo. “Chi salva una vita salva il mondo intero”, recita il Talmud. E allora, quanti mondi stiamo lasciando crollare, senza alzare lo sguardo dai nostri comodi silenzi?

Genocidio non è solo sterminio: è cancellazione dell’avvenire, è togliere a un popolo la possibilità di crescere, di avere un domani. Eppure, nei loro disegni fatti di matite spezzate, i bambini di Gaza continuano a disegnare case con il tetto, cieli con il sole, famiglie unite. Un’utopia semplice, ma che oggi sembra un lusso inarrivabile.

E se un bambino israeliano, chiuso nel rifugio antiaereo, disegna il suo quartiere con finestre infrante e nuvole nere, il dolore è lo stesso. La paura ha lo stesso colore, ovunque.

La letteratura ha sempre dato voce a ciò che la politica tenta di coprire con parole fredde. Giuseppe Ungaretti, dalla trincea della Grande Guerra, scriveva:

 “Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie.”

Ecco, così stanno i bambini sotto le bombe: fragili foglie in attesa del vento che li stacchi. Ma loro non hanno scelto. Non hanno votato. Non hanno deciso. Sono stati trascinati dentro una tragedia che non appartiene alla loro età.

Anna Frank, nel suo diario, ci ha lasciato la voce più pura della giovinezza tradita:

 “Nonostante tutto, continuo a credere che la gente abbia davvero un buon cuore.” 

Se potessero parlare, forse anche i bambini di Gaza, di Israele, i bambini di tutto il mondo direbbero lo stesso, perché l’infanzia, pur ferita, custodisce ancora un germe di speranza. Ma spetta a noi adulti non tradire questa speranza.

L’indifferenza è una colpa, ed è una colpa di tutti!

Primo Levi scriveva: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo.” E accade ancora, ogni giorno, davanti ai nostri occhi, nonostante le promesse di “mai più”. Le immagini scorrono veloci nei notiziari, sui social; si consumano in pochi secondi, e poi la vita va avanti come se niente fosse. Ciascuno di noi, continua la propria vita in una tacita indifferenza, come se tutto ciò, infondo, non ci riguardasse. Eppure, ogni bambino perduto è un mondo irrimediabilmente cancellato.

Che diritto abbiamo di dimenticare? Che diritto abbiamo di voltare lo sguardo, di archiviare tutto sotto la categoria astratta di “conflitto”? Noi sappiamo i nomi delle armi, conosciamo i calcoli dei governi, ma ignoriamo i nomi di quei piccoli che sono caduti. Sono loro i veri invisibili del nostro tempo.

E a questo punto non ci resta che una preghiera laica, che non appartenga a nessuna religione ma alla sola umanità. Una preghiera che dica: BASTA UCCIDERE BAMBINI. Basta annientare l’infanzia. Basta confondere giustizia con vendetta, sicurezza con terrore, politica con sangue!!!

I bambini non hanno colpe. Non hanno nemici. Sono soltanto bambini. E non importa se parlano ebraico o arabo, se il loro cielo è sopra Sderot o sopra Rafah: il loro sorriso è universale, la loro paura è la stessa, il loro diritto alla vita è identico.

Come scriveva Kahlil Gibran:

“I vostri figli non sono vostri figli.

Sono i figli e le figlie della vita che ha in sé stessa un desiderio ardente.”

E noi, adulti ciechi e sordi, stiamo spegnendo quel desiderio ardente.

Quando i secoli futuri ricorderanno questa epoca, non parleranno dei nostri trattati, né delle nostre alleanze, né delle nostre mappe. Ricorderanno, piuttosto, le fotografie di bambini senza vita, i giocattoli sepolti sotto le macerie, gli occhi che hanno smesso di brillare troppo presto.

E allora forse qualcuno scriverà: “L’umanità è caduta davvero quando ha lasciato morire i suoi bambini”. È questa la fine del mondo! 

Non dobbiamo aspettarci cataclismi, meteoriti distruttori, annientamento fantascientifico dell’umanità. La fine del mondo è questa!!! 

L’infanzia è (e deve essere) fragile e inviolabile, intoccabile. Eppure viene calpestata ogni giorno, tra Gaza e Israele, tra i deserti e i campi profughi, tra i villaggi dimenticati dell’Africa e le città in guerra dell’Europa.

“Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me”, dice il Vangelo di Matteo. Anche se non crediamo, quelle parole restano una condanna senza tempo.

E allora, svegliatevi! Basta silenzi, basta indifferenza, basta sangue innocente. Non possiamo più tollerare che i bambini muoiano così. Non possiamo più accettare che il mondo resti immobile mentre l’infanzia viene schiacciata sotto le macerie.

L’urlo dei bambini è l’urlo della vita stessa. Se non lo ascoltiamo, se non lo difendiamo, allora non meritiamo di chiamarci “uomini”.

Svegliatevi, umanità. Non è più possibile. Non è più tollerabile. Non è più sopportabile che gli innocenti muoiano così.

Ernesto Mastroianni