Buon Natale, ma non per tutti: un mondo di luci e di tante assenze

Buon Natale a voi che vi scambiate auguri in corsia preferenziale, tra un brindisi e una foto col filtro dorato. Buon Natale a voi che parlate di “famiglia” come di un concetto universale, salvo poi usarlo come recinto: dentro noi, fuori loro. Buon Natale, soprattutto, a uno Stato che a Natale si ricorda di essere buono, purché la bontà duri il tempo di una diretta televisiva.

È il giorno in cui tutto dovrebbe rallentare, dicono. E invece accelera la rimozione. Perché il Natale italiano è un’operazione di maquillage: si coprono le crepe con le lucine, si profuma l’aria di cannella, si abbassa il volume del disagio. Gli esclusi restano fuori campo, come errori di montaggio.

Partiamo dagli anziani. Quelli che “sono la nostra memoria”, finché non diventano un problema logistico. Li celebriamo nei discorsi ufficiali, li parcheggiamo nella realtà. Case di riposo che diventano depositi di tempo, corridoi dove il silenzio pesa più di qualsiasi parola. A Natale li visitiamo, se li visitiamo, come si fa con un dovere morale: mezz’ora, una foto, “l’anno prossimo vengo prima”. Poi si torna alla vita vera, che curiosamente non li include più. Lo Stato li ringrazia per i sacrifici fatti, mentre li ricompensa con pensioni risicate, sanità a ostacoli e una solitudine che nessuna tredicesima può compensare.

Buon Natale agli anziani che mangiano in silenzio davanti a una tavola apparecchiata per uno. A quelli che aspettano una telefonata che non arriva. A quelli che si sentono dire “sei fortunato, almeno sei ancora vivo”, come se la vita senza relazioni fosse un premio di consolazione.

Poi ci sono loro: i depressi, i fragili, quelli con un disturbo che non sta bene nei post motivazionali. A Natale il loro disagio è sconveniente. “Ma come, proprio oggi stai male?” Sì, proprio oggi. Perché la festa amplifica l’assenza, non la cancella. Perché quando il mondo ti urla che devi essere felice, la tua infelicità diventa una colpa.

Il sistema sanitario li chiama “utenti”, “casi”, “numeri”.  Le liste d’attesa sono lunghe come inverni, gli psicologi nel pubblico scarsi come neve ad agosto. Ma tranquilli: c’è il numero verde. C’è sempre un numero verde. Una voce gentile che ti dice di respirare, mentre lo Stato trattiene il fiato da anni davanti al problema della salute mentale. Investire? Riformare?

No, meglio una campagna di sensibilizzazione a tema natalizio. Una candela accesa, un hashtag e via. Buon Natale a chi combatte ogni giorno con la testa, mentre tutti gli dicono che “è solo questione di volontà”. A chi viene considerato debole, strano, esagerato. A chi a tavola sorride per non rovinare l’atmosfera, mentre dentro crolla.

E poi gli emarginati, quelli per cui la parola “integrazione” è sempre al futuro. I poveri, i senza fissa dimora, i migranti, i dimenticati professionali. A Natale diventano oggetto di beneficenza, non di diritti. Un pasto caldo, una coperta, una foto per dimostrare che siamo buoni. Perché la carità consola chi la fa, non sempre chi la riceve. Lo Stato li guarda da lontano, come se fossero una condizione atmosferica: spiacevole mai evitabile.

“Non possiamo accoglierli tutti”, “non ci sono risorse”, “non è il momento”. Curioso come non sia mai il momento giusto per includere, ma lo sia sempre per escludere con metodo.

Buon Natale a chi passa la notte su una panchina mentre noi discutiamo se il presepe offende qualcuno. Buon Natale a chi non rientra nella categoria degli “italiani normali”, quella razza mitologica che lavora, consuma, sorride e non disturba. Già, gli italiani normali. Quelli che a dicembre si scoprono improvvisamente solidali, purché il dolore resti a distanza di sicurezza. Quelli che dicono “poverini” e poi cambiano canale.

Quelli che confondono la fortuna con il merito e la sfortuna con la colpa. Quelli che si indignano a orari prestabiliti e si stancano in fretta. Questo è il Natale del nostro sistema di minoranze: una gestione a compartimenti stagni, un welfare che funziona come un calendario dell’Avvento al contrario, ogni giorno una porta chiusa. Un Paese che si commuove davanti al presepe ma inciampa davanti alla realtà. Che predica comunità e pratica solitudine amministrata.

Eppure, se il Natale avesse ancora un senso laico, civile, umano, dovrebbe essere il giorno della domanda scomoda: chi stiamo lasciando fuori? Chi pagherà il conto delle nostre luci accese? Chi resta al buio mentre brindiamo?

Buon Natale, allora, a chi resiste. A chi è vecchio e invisibile, fragile e giudicato, povero e ignorato. Buon Natale a chi non viene invitato, a chi non fa notizia, a chi non rientra nelle statistiche che ci fanno sentire migliori. E buon Natale anche a noi, italiani normali, se avremo il coraggio, almeno oggi, di guardare oltre il nostro tavolo apparecchiato. Perché senza gli esclusi, questo non è un Paese. È solo una festa ben illuminata sopra una lunga, lunghissima assenza.

di Raffaele Bruno – studente liceale