In Italia si fanno sempre meno figli. È un crollo che non conosce tregua, e che nel 2024 ha toccato il suo punto più basso: 369.944 nascite, in calo del 2,6% rispetto all’anno precedente. I dati diffusi dall’Istat raccontano una tendenza inarrestabile: il tasso di fecondità medio è sceso a 1,18 figli per donna, il livello più basso mai registrato. E la stima provvisoria per i primi sette mesi del 2025 peggiora ulteriormente: 1,13 figli per donna e circa 13mila nascite in meno rispetto allo stesso periodo del 2024, pari a un -6,3%.
Il declino demografico, iniziato nel 2008, si è ormai trasformato in un fenomeno strutturale. Da allora, le culle vuote sono aumentate di anno in anno: la perdita complessiva è di quasi 207mila nascite in meno in sedici anni, un calo del 35,8%. Nel 2008 erano oltre 576mila i nati vivi: oggi la cifra appare lontanissima, quasi un ricordo.
Le cause, secondo l’Istat, sono molteplici. Non solo la scarsa propensione ad avere figli, ma anche la diminuzione del numero di potenziali genitori: le generazioni nate dalla metà degli anni Settanta in poi sono sempre più esigue, figlie a loro volta di un periodo di contrazione della natalità. Allora, la fecondità media era già scesa da oltre due figli per donna a 1,19 nel 1995, inaugurando la spirale che oggi sembra senza uscita.
Le difficoltà economiche, l’instabilità lavorativa e l’aumento dell’età media al primo figlio — ormai superiore ai 32 anni — aggravano il quadro. In Italia, osserva l’Istat, la combinazione tra scarse politiche familiari, costo della vita e incertezza occupazionale continua a pesare sulle scelte riproduttive.
A livello territoriale, la fotografia è diseguale ma conferma il trend nazionale. Abruzzo (-10,2%) e Sardegna (-10,1%) guidano la classifica del calo più netto nei primi sette mesi del 2025. Seguono Umbria (-9,6%), Lazio (-9,4%) e Calabria (-8,4%), con diminuzioni molto più marcate rispetto allo scorso anno. Le perdite più contenute si registrano in Basilicata (-0,9%), Marche (-1,6%) e Lombardia (-3,9%), mentre fanno eccezione solo tre aree: Valle d’Aosta (+5,5%), Bolzano (+1,9%) e Trento (+0,6%), uniche realtà in cui le nascite risultano in aumento.
Il rapporto tra generazioni mostra un equilibrio sempre più fragile. Gli italiani anziani superano di gran lunga i bambini e, nei prossimi decenni, il divario sarà destinato a crescere. Secondo le proiezioni dell’Istat, la quota di persone con più di 65 anni passerà dal 24,3% del 2024 al 34,6% nel 2050, vale a dire più di un terzo della popolazione. Nello stesso periodo, la fascia d’età compresa tra 15 e 64 anni — quella in età lavorativa — scenderà dal 63,5% al 54,3%.
Un Paese sempre più vecchio, quindi, ma anche più longevo. La speranza di vita alla nascita continuerà a crescere: nel 2050 raggiungerà 84,3 anni per gli uomini (dagli 81,7 attuali) e 87,8 anni per le donne (dagli 85,6 del 2024). A 65 anni, la prospettiva di vita salirà a 21,5 anni per i maschi e 24,4 per le femmine. Dati positivi, certo, ma che accentuano lo squilibrio tra generazioni e pongono nuove sfide sul piano economico e sociale.
Le conseguenze più immediate si riflettono sul sistema previdenziale. Secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato, il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia salirà progressivamente: 68 anni e 11 mesi nel 2050 e addirittura 70 anni nel 2067. Un innalzamento legato non solo alla maggiore aspettativa di vita, ma anche alla necessità di garantire la sostenibilità del sistema pensionistico in un Paese in cui le nuove generazioni sono sempre meno numerose.
L’Italia, insomma, invecchia più rapidamente di quanto riesca a rigenerarsi. E se da un lato la longevità è una conquista, dall’altro il suo prezzo è l’erosione del ricambio demografico e produttivo. L’Istat sottolinea come, per compensare la perdita di forza lavoro, sarà sempre più importante allargare il tasso di attività fino ai 75 anni, estendendo il concetto stesso di età lavorativa.
Tra le righe dei grafici e delle percentuali, emerge un quadro che va oltre la statistica: un Paese che fatica a immaginare il proprio futuro. Le culle vuote raccontano non solo la crisi della natalità, ma anche quella della fiducia. Un’Italia che sopravvive più che riprodursi, dove le nuove generazioni rischiano di diventare un bene raro.
E mentre le famiglie si riducono, i nidi chiudono e le scuole si svuotano, resta aperta una domanda che nessun numero può davvero spiegare: chi nascerà per sostenere tutto questo domani?