Il caso Signorini e la resa dei conti nel Palazzo del gossip: quando il sistema divora se stesso

Chiariamo subito una cosa, così risparmiamo tempo e ipocrisia: Alfonso Signorini non è il male assoluto. È un sintomo. Anzi: è la manifestazione più visibile di un sistema televisivo che si guarda allo specchio, si trova bellissimo e intanto affonda con il sorriso in diretta. Il famigerato “sistema Signorini”, preso come se fosse un’entità segreta, una setta, un codice occulto, è una favola utile solo a chi vuole ridurre tutto a un nome e a un volto. Il punto è molto più semplice e molto più scomodo: esiste un sistema TV che prende il nulla, lo lucida, lo veste bene, gli mette addosso un’aura di “cultura pop” e poi lo vende come se fosse un prodotto inevitabile, naturale, persino necessario.

Ed è qui che entra in scena l’altro protagonista, l’uomo che oggi si presenta come l’unico sobrio in un bar alle sei del mattino: Fabrizio Corona. Il grande rivelatore, il martire, l’eroe contro il potere. Peccato che quel potere, per anni, lo abbia nutrito. Altro che oppositore: Corona è stato uno che ha fatto la fila giusta, ha stretto le mani giuste, ha giocato lo stesso identico gioco che oggi dice di voler smontare. Il problema non è che parli. Il problema è che finge di essere arrivato adesso, come se non avesse passato una vita a guadagnare dalle dinamiche che oggi denuncia con l’aria di chi “ve l’aveva detto”. No: non ce l’avevi detto. Eri occupato a incassare.

Per questo, chiamarlo “scandalo” è quasi comico. Qui non esplode una verità: qui si regola un conto. È una guerra tra ex complici, persone che si conoscono fin troppo bene, che hanno condiviso tavoli, favori e soprattutto silenzi. E adesso si lanciano addosso la parola “sistema” come se fosse una scoperta archeologica e non la casa in cui hanno abitato per anni. È la stessa vecchia storia, con la differenza che oggi si racconta in streaming, si monta a puntate, si condisce con frasi ad effetto e si vende come “bomba”.

Nel frattempo la televisione, quella vera protagonista, ride. Ride perché mentre uno fa il moralista e l’altro fa il volto del problema, il meccanismo resta intatto. Oliato. Funzionante. Vincente. Ha trasformato il fango in intrattenimento e l’ipocrisia in format. E noi, puntuali, facciamo esattamente ciò che quel meccanismo desidera: guardiamo, discutiamo, ci indigniamo, ci schieriamo. Come tifosi, non come cittadini. Come fanclub, non come osservatori.

L’ultima puntata di “Falsissimo” (e già il titolo, se uno vuole essere cattivo, è un programma) lancia accuse pesanti a Signorini. La risposta, riportata, è la più prevedibile di tutte: “È già tutto in mano ai miei legali”. Che è una frase perfetta, perché fa due cose insieme: chiude la bocca agli altri e, nello stesso tempo, alimenta la storia. Il contenzioso legale non spegne il fuoco, lo certifica. Lo rende ufficiale. Lo trasforma in narrazione. Ed è lì che il circo ringrazia e riparte con un giro in più.

Ma la questione vera, quella che meriterebbe un faro e non un meme, è un’altra e fa molta più paura: l’abuso di potere in senso sessuale e professionale, la zona grigia in cui carriera, accesso e desiderio vengono mescolati fino a diventare ricatto, promessa, pressione. Chiamatelo come volete, ma smettiamola di dipingerlo come un’esotica eccezione: è una dinamica nota, raccontata, perfino banalizzata da decenni nello star system. Se davvero, come viene sostenuto, esistono frasi del tipo “se non lo fai, non vai in televisione”, il punto non è lo shock morale da tastiera. Il punto è: perché in Italia queste accuse raramente diventano un movimento serio, strutturato, capace di proteggere chi denuncia e di isolare chi abusa? Perché altrove si è almeno provato a fare sistema contro il sistema, mentre qui tutto finisce a tarallucci, querele e dirette Instagram annunciate dai “morti di fama” che promettono “tutta la verità” come fosse un lancio promozionale?

Corona parla di un presunto “sistema” e spara numeri, dieci anni, centinaia di ragazzi, dinamiche seriali. Anche ammesso che una parte di ciò che dice sia vera, quello che dovrebbe far saltare dalla sedia non è la sorpresa del pubblico. È la non-sorpresa. Perché davvero crediamo alla favola dell’ingenuità assoluta, dei ragazzi che non sapevano, non intuivano, non vedevano? Davvero fingiamo che lo star system sia un luogo limpido in cui si entra per merito e si resta per virtù? Gli scrittori lo raccontano da una vita, e non da ieri: che ci siano regole non scritte, porte girevoli, scorciatoie, favori, promesse. Non è giusto, non è pulito, spesso è marcio. Ma ridurre tutto a una fiaba con vittime perfette e carnefici perfetti è comodo, perché evita la domanda più difficile: chi alimenta il meccanismo, chi lo accetta, chi ci vive dentro e poi, quando conviene, lo denuncia come se fosse piovuto dal cielo?

E allora eccoci al punto: cos’è che ci scandalizza davvero? Le accuse in sé, o il fatto che stavolta la resa dei conti avvenga in pubblico e senza più il galateo dell’omertà? Ci scandalizza l’ipotesi dell’abuso, o ci scandalizza che a pronunciarla sia qualcuno che fino a ieri era parte integrante dello stesso sottobosco? Perché la sensazione è che qui non stia esplodendo una verità: sta cambiando la gerarchia. Sta saltando un equilibrio. E quando un equilibrio salta, chi urla più forte non è necessariamente il più pulito: spesso è solo quello che non ha più nulla da perdere.

Il finale, per ora, è il più italiano possibile: social in guerra per difendere l’idolo, indignazione trasformata in tifo, e una macchina che macina tutto — accuse, smentite, mezze frasi, allusioni — per farne contenuto. Il circo cambia clown, mai tendone. E finché continuiamo a confondere la giustizia con lo spettacolo, e la verità con una puntata “evento”, quel tendone resterà lì. Con le stesse luci. Gli stessi biglietti. E lo stesso pubblico convinto di essere diverso, mentre fa esattamente ciò che il sistema si aspetta.