Il diritto internazionale è morto stanotte: navi umanitarie bloccate, attivisti arrestati: quando la legge cede all’arbitrio

Manifestazione del 1 ottobre a seguito dell’attacco alla Flotilla

Noi, comodi nelle nostre case, abbiamo visto immagini incredibili: navi umanitarie fermate in alto mare, persone arrestate in acque internazionali, il diritto internazionale che perde pezzi come sabbia tra le dita. Eppure non dovremmo sorprenderci: se il nostro Ministro degli Esteri arriva a dire che quel diritto “conta fino a un certo punto”, il silenzio e la complicità delle istituzioni italiane diventano una conseguenza inevitabile.

La Global Sumud Flotilla non era una flotta di guerra. Era una missione di pace, non violenta, carica di cibo, filtri per l’acqua, latte per i neonati, stampelle, medicine. Portava con sé anche un chiaro messaggio politico: stiamo facendo quello che i governi non hanno avuto il coraggio di fare, prendere una posizione netta contro un genocidio. Non si parla di Palestina perché sia un tema “di moda” o perché garantisca più clamore mediatico. Si parla di Palestina perché siamo davanti al caso più evidente della Storia contemporanea, documentato da immagini, video e testimonianze dirette di un popolo massacrato da decenni. Ma, come spesso accade, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Un blocco illegale, condannato dalla giustizia internazionale

La Corte Internazionale di Giustizia lo ripete da tempo: le vie umanitarie non possono essere ostacolate. Punto. Eppure l’assedio continua, e chi prova a spezzarlo viene trattato come un criminale. Oggi, invece di permettere il passaggio di beni essenziali, le autorità hanno scelto la via delle milizie e della forza bruta: la flotta fermata, gli attivisti arrestati. Uomini e donne che hanno avuto soltanto il coraggio di portare aiuti e di farsi carico di un messaggio dal valore universale.

Quando lo Stato della legge diventa Stato dell’arbitrio, il danno non ricade solo sui diretti interessati. Ricade su tutti noi, sul valore stesso della comunità internazionale, sul principio minimo e non negoziabile della dignità umana. Questo non è uno scontro di bandiere o di identità religiose: è una domanda semplice e universale. In che mondo vogliamo vivere? In uno in cui chi ha fame muore mentre il resto del mondo resta spettatore? O in uno in cui sappiamo dire che la vita umana viene prima di ogni calcolo geopolitico, prima di ogni ambizione imperialista e criminale?

La verità emerge, e si chiama genocidio

La propaganda può cercare di confondere, ma alla lunga diventa un boomerang. Oggi la verità è evidente: si chiama genocidio. Non è solo Gaza, non è solo una rotta marittima. È il principio che stiamo difendendo: il diritto internazionale non è un optional per i giorni facili, è il confine che ci separa dalla barbarie.

Se non difendiamo oggi la libertà di portare aiuti, domani perderemo anche la nostra libertà.

Ieri abbiamo fatto rumore. Oggi, domani e finché servirà dobbiamo farne ancora di più. La storia ci giudicherà, e un giorno – perché quel giorno arriverà – ci chiederemo da che parte eravamo. È lì che si vedrà se saremo stati spettatori silenziosi o protagonisti della solidarietà. Se avremo scelto di restare comodi o di alzarci. Se avremo avuto il coraggio di dire, con gesti e parole, che nessuna vita umana può essere ridotta a merce di scambio politico.

Il tempo delle scuse è finito. Il diritto internazionale è morto stanotte. Ma può rinascere, se lo difendiamo insieme.

di Luca Falbo