Quando la genetista inglese Turi King decide di raccontare i risultati della sua ultima ricerca, non usa giri di parole: «Se Adolf Hitler avesse dato un’occhiata al suo Dna si sarebbe fatto mandare pure lui nei lager». È una frase dura, pensata per scuotere, ma soprattutto per sottolineare il peso scientifico di un lavoro che tenta l’impensabile: ricostruire il profilo genetico del dittatore nazista partendo dal sangue trovato nel suo bunker.
Quel sangue, conservato per decenni, è un reperto minuscolo e quasi leggendario. Lo prelevò nel maggio del 1945 il colonnello americano Roswell P. Rosengren, assistente stampa del generale Dwight Eisenhower, tagliando un frammento del tessuto del divano su cui Hitler si suicidò il 30 aprile. Una reliquia involontaria, finita anni dopo al museo di Gettysburg, da cui il team di King ha ottenuto il campione per la sequenza genetica.
La genetista dell’Università di Bath non è nuova a imprese simili. Fu lei, nel 2012, a guidare la squadra che identificò i resti di Riccardo III sotto un parcheggio di Leicester, portando il lavoro della genetica forense al centro del dibattito storico internazionale. Ma la sfida rappresentata da Hitler è diversa: il materiale è scarso, il contesto contaminato, la sensibilità politica altissima. Per questo King ha risposto pubblicamente alle accuse di “studio dubbio”, rivendicando procedure rigorose e un risultato che – sostiene – combacia con quello di un lontano parente maschio del Führer.
I primi dati emersi hanno già acceso un dibattito globale. Secondo la ricostruzione genetica, Hitler soffriva della sindrome di Kallmann, un disturbo raro che altera la produzione di ormoni sessuali e impedisce il corretto sviluppo della pubertà. Una diagnosi che confermerebbe decenni di sospetti, dicerie e testimonianze raccolte dagli Alleati dopo la guerra sulla presunta atrofia genitale del dittatore. Non si tratterebbe solo del celebre “testicolo mancante”, già citato nei canti dei soldati britannici, ma di un quadro clinico più complesso: sviluppo incompleto, sterilità probabile, libido compromessa.
Alex J. Kay, storico dell’Università di Potsdam, non esita a ipotizzare una conseguenza diretta sulla vita privata di Hitler. «Questo aiuterebbe a capire perché non avesse relazioni sentimentali strutturate, a differenza di molti suoi gerarchi», ha dichiarato al Times. È un’interpretazione che mira a collegare biologia e comportamento, ma che apre anche un terreno scivoloso: dove finisce la scienza e dove inizia la psicologia retrospettiva?
Il lavoro di King riscrive anche un altro capitolo della mitologia nera del Führer: la sua presunta origine ebraica. Da decenni circolano teorie, spesso usate in chiave propagandistica, su un possibile nonno ebreo. La nuova sequenza genetica smentisce nettamente: nessuna traccia di lignaggio semitico, nessuna presenza di marcatori riconducibili a popolazioni ebraiche. Solo origini austro-germaniche, perfettamente in linea con la genealogia nota della famiglia Hitler.
Sul fronte della salute mentale, invece, lo studio non offre risposte definitive. Alcuni frammenti genetici indicano predisposizioni compatibili con disturbi psichiatrici come bipolarismo o schizofrenia, ma la scienza – in questo caso – si ferma ai margini delle ipotesi. Senza una base clinica, senza referti, senza testimonianze dirette, nessun test del 2025 può ricostruire la psiche di un uomo del 1945. È un punto su cui King invita alla cautela: «Non tutto è scritto nel Dna».
Il documentario “Hitler’s DNA: Blueprint of a Dictator”, in onda su Channel 4, anticipa le conclusioni del lavoro che sarà pubblicato su una rivista accademica nelle prossime settimane. Tra immagini d’archivio, ricostruzioni e interviste, il racconto mette insieme la cronaca scientifica e il peso morale di ciò che significa analizzare il Dna di uno dei responsabili della Shoah. Il tema etico resta sullo sfondo, ma inevitabile: cosa cambia, davvero, conoscere le fragilità fisiche o genetiche di un dittatore? E soprattutto: è legittimo leggere la storia attraverso un referto biologico?
Il solo fatto che la ricerca sia stata possibile racconta qualcosa del nostro tempo. Un mondo in cui la scienza riesuma il passato con strumenti impensabili solo pochi decenni fa, e in cui la genetica diventa parte della narrazione pubblica, capace di rimettere in discussione fatti, miti, propaganda.
Resta il peso del simbolo. Un frammento di stoffa macchiata di sangue, nascosto per ottant’anni, che oggi riemerge per restituire un’immagine di Hitler più fragile, più biologicamente vulnerabile, ma non per questo meno responsabile dei crimini che portano il suo nome. La scienza illumina ciò che può. Il resto appartiene alla storia, e alla memoria.







