L’Italia scivola al 46esimo posto nella classifica globale delle performance climatiche, perdendo tre posizioni in un solo anno

Un’altra retrocessione, e questa volta particolarmente pesante. L’Italia scivola al 46esimo posto nella classifica globale delle performance climatiche, perdendo tre posizioni in un solo anno e confermando un trend che ormai sembra strutturale. A certificarlo è il nuovo Climate Change Performance Index (Ccpi), redatto da Germanwatch in collaborazione, per il nostro Paese, con Legambiente e presentato a Belém, in Brasile, dove è in corso la Cop30. Il risultato fotografa un quadro che gli analisti definiscono «insoddisfacente e in netto peggioramento» rispetto agli impegni presi con l’Accordo di Parigi e con gli obiettivi fissati al 2030.

Il Ccpi valuta 63 Paesi più l’Unione europea, misurando il loro impegno nella riduzione delle emissioni, nello sviluppo delle rinnovabili, nell’efficienza energetica e nella qualità delle politiche climatiche. Quattro aree che pesano in modo diverso sulla valutazione finale: il 40% deriva dal trend delle emissioni, il 20% dallo sviluppo delle fonti pulite, un altro 20% dall’efficienza e il restante 20% dalla capacità dei governi di mettere in campo politiche coerenti e verificabili. È proprio in questa ultima voce che l’Italia precipita al 58esimo posto, una delle peggiori performance tra i Paesi industrializzati.

Secondo Germanwatch, la Penisola sconta «una politica climatica nazionale gravemente insufficiente». Il nuovo Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (Pniec) prevede, entro il 2030, una riduzione delle emissioni pari al 44,3% rispetto ai livelli di riferimento, percentuale che sale al 49,5% includendo gli assorbimenti del settore agroforestale. Numeri inferiori sia al 51% indicato in precedenza dal Pnrr sia, soprattutto, al 55% richiesto dagli obiettivi europei. Il rapporto ricorda inoltre che il Pniec continua a incontrare difficoltà nell’attuazione, come confermato dal recente report Ispra sullo stato dell’ambiente in Italia 2025.

La retrocessione italiana pesa ancora di più se confrontata con l’andamento degli altri Paesi europei. Nonostante nessuna nazione abbia raggiunto livelli compatibili con la traiettoria dei +1,5 °C, alcuni Stati avanzano. La Danimarca, grazie alla crescita dell’eolico offshore, conquista la quarta posizione, prima nella classifica reale dopo i tre gradini “non assegnati”. Subito dietro c’è il Regno Unito, che viene premiato per l’abbandono progressivo del carbone. Colpisce il sesto posto del Marocco, considerato un modello per le sue basse emissioni pro-capite, per i progetti sulle rinnovabili e per gli investimenti nel trasporto pubblico.

La fotografia diventa più fosca guardando alle grandi economie fossili. In coda alla classifica, appena dopo la Russia, compaiono gli Stati Uniti, l’Iran e l’Arabia Saudita. La Cina, il maggior emettitore globale, risale di una sola posizione e si ferma al 54esimo posto. Drammatica la discesa dell’India, che perde 13 posizioni e scivola al 23esimo posto: un arretramento dovuto all’aumento del carbone e all’assenza di una roadmap credibile per il phase-out, nonostante i buoni risultati nell’espansione delle rinnovabili.

L’Unione europea, presa nel suo complesso, perde tre posizioni: solo 15 dei 27 Stati membri si collocano nella metà alta della classifica. Merita una nota positiva la Spagna, che fa un balzo dal 20esimo al 15esimo posto grazie a una spinta accelerata sulle rinnovabili. Molto più critica la situazione della Germania, che crolla di sei posizioni, penalizzata dal nuovo incremento di investimenti nel gas e da una politica climatica giudicata incoerente rispetto agli obiettivi di medio periodo.

In questo contesto, la situazione italiana appare particolarmente fragile. Secondo Legambiente, i dati mostrano «una visione miope che continua a rallentare la transizione energetica del Paese». Il presidente dell’associazione, Stefano Ciafani, osserva che l’Italia «sta facendo poco o niente nel contrasto alla crisi climatica» e che le scelte sul fronte energetico stanno producendo «nuove e pericolose dipendenze dall’estero, soprattutto da Paesi politicamente instabili». Una critica che rimanda ai progetti sul gas, agli iter rallentati degli impianti rinnovabili e al persistere di ostacoli burocratici che frenano l’installazione di nuove infrastrutture pulite.

Il report di Germanwatch arriva in un momento in cui la crisi climatica mostra effetti sempre più tangibili sul territorio italiano, tra ondate di calore, fenomeni estremi e un dissesto idrogeologico in continuo aggravamento. Nonostante ciò, la politica fatica a trovare una direzione stabile e una capacità di programmazione di lungo periodo. L’Italia, sostiene Ciafani, avrebbe «tutti gli strumenti per diventare un hub delle rinnovabili nel Mediterraneo», puntando su accumuli, reti intelligenti e accelerazione degli iter autorizzativi. Ma senza un cambio di passo, avverte, «restiamo ancorati a un modello energetico del passato».

Il 46esimo posto non è solo una valutazione tecnica: è il segnale di un ritardo che rischia di pesare competitivamente ed economicamente sui prossimi anni. E mentre molti Paesi tentano di avvicinarsi agli impegni di Parigi, l’Italia continua a perdere terreno.