22 settembre 2025. L’Italia si è fermata. Non perché lo avessero deciso i partiti, non perché lo avessero convocato i grandi sindacati confederali – CGIL, CISL e UIL – che più che sindacati ormai sembrano società di servizi, avendo perso ormai la bussola del loro ruolo storico, ma perché un popolo intero, che forse cerca da troppo tempo dei riferimenti politici stabili e reali ha deciso di scendere in piazza da solo, grazie soprattutto all’iniziativa dei sindacati autonomi, dei sindacati di base, che hanno fatto da motore organizzativo e chiamata reale alla mobilitazione. Roma, Milano, Genova, Bologna, Napoli, Cagliari, Cosenza e decine di altre città italiane attraversate da cortei che hanno unito portuali e studenti, insegnanti e precari, disoccupati e famiglie, bambini e anziani.
Non c’erano partiti politici, non c’erano le sigle tradizionali della confederazione: questa manifestazione è stata lanciata dal basso, da USB, ADL Cobas, CUB, e altre sigle autonome che hanno proclamato lo sciopero generale, spronato le assemblee, costruito presidi, mobilitato nelle scuole, nei trasporti, nei porti. Qualcuno proverà a raccontare che oggi ci sono stati scontri. E sì, a Milano ci sono stati dieci arresti, vetri rotti, cariche, tensioni. Ma l’Italia la conosce: quando il popolo si muove, la puzza degli infiltrati arriva subito, puntuale come una regia nascosta che sporca la limpidezza di una protesta. E se di questo non si è trattato, sono comunque episodi da condannare perché sporcano la bellezza delle piazze.
Eppure la verità è chiara: la giornata non è stata i disordini. La giornata è stata la piazza che ha fatto luce sull’orrore e sul disagio.
Decine di migliaia di persone che hanno scelto di esserci senza paura, che hanno trasformato il silenzio della rassegnazione in coro. Colpisce, in queste ore, la sproporzione delle reazioni. I rappresentanti del governo hanno usato toni duri, spietati, contro le poche scene di violenza viste in Italia. Non una parola con la stessa durezza, con la stessa indignazione, contro le stragi quotidiane a Gaza. Un vetro spaccato in stazione vale più di un bambino ucciso sotto le bombe? Se questa è la scala dei valori, allora la politica non è più morale, è contabilità di convenienza. E in questo paradosso si vede tutta la distanza: un popolo che chiede giustizia, e un potere che misura solo l’ordine pubblico. Oggi in piazza c’era Gaza, ma non solo Gaza. C’era il caro vita che svuota i portafogli, la precarietà che divora generazioni, la sanità ridotta a privilegio, la scuola che cade a pezzi, i salari che non bastano. C’era un’Italia che protesta non per ideologia ma per sopravvivenza.
A Cosenza la risposta è stata degna della sua storia. Generazioni unite, ragazzi e anziani, famiglie e studenti. E la scena che resterà è questa: bambini che giocano sorridendo con bandierine palestinesi, come in un ponte fragile e struggente verso i bambini di Gaza che non possono giocare. In quell’immagine c’era il cuore della giornata: la solidarietà che diventa sogno di pace. Cosenza e la Calabria oggi hanno mostrato una dignità che sembrava perduta: non più periferia, ma parte integrante e cuore pulsante di un Paese che chiede di essere ascoltato. Oggi è nato un campo largo che non so se somiglia a quello discusso nei palazzi. È un campo di carne e di rabbia, di volti e di corpi. Ma adesso il nuovo campo largo del centrosinistra ha davanti una sfida enorme: riuscire a coinvolgere questa piazza dentro di sé, non solo nei programmi ma nelle scelte quotidiane, nella concretezza delle politiche. Se non saprà farlo, se si limiterà ai soliti compromessi di cartello, il risultato non sarà soltanto l’ennesima affermazione del centrodestra: ma la vittoria dell’astensionismo. E il primo esame sarà proprio la Calabria, dove una campagna elettorale brevissima, che assomiglia al più facile degli inganni per conservare il potere, dirà se davvero questa energia potrà trasformarsi in voto e in cambiamento. Altrimenti, ancora una volta, il partito più grande e il vero vincitore morale sarà il partito dell’astensione. Oggi l’Italia ha mostrato che non è un paese morto, ma un paese ancora vivo. Che non è un popolo rassegnato, ma un popolo che sa ancora gridare. Che non è vero che non ci sia alternativa: l’alternativa è la gente, quando decide di esserci. Chi governa deve capirlo: non sono stati i disordini a fare la storia di questa giornata, ma la piazza, che aveva molta più anima di quelle che si sono viste nei diversi comizi e incontri per le imminenti elezioni regionali calabresi, che il più delle volte creano una partecipazione di plastica che gioca sulla disperazione e sulla cieca e stupida sudditanza.
Non saranno dieci arresti a cambiare il volto di un Paese che oggi ha scelto di rialzarsi. Se la politica continuerà a ignorarlo, resterà un grido nel vuoto. Ma se lo ascolterà, oggi potrà essere ricordato come un nuovo inizio. Perché un vetro rotto si può aggiustare, una piazza tradita no. E perché oggi, in Italia, la piazza ha vinto e il palazzo dovrà tenerne conto.
Francesco Vilotta