Pasolini e il populismo: quando l’eretico diventa maschera

Pasolini

C’è un video che circola sui social. Donald Trump sul palco, gesticola, urla, insulta i giornalisti. La folla impazzisce. Applaude ogni provocazione, ogni rottura delle regole, ogni “verità scomoda” urlata senza filtri. Trump è il loro eroe. L’uomo che dice quello che pensano tutti ma nessuno ha il coraggio di dire. L’eretico che sfida il sistema.

Pasolini, se fosse vivo, guarderebbe quella scena e sorriderebbe amaro. Perché l’aveva già vista. L’aveva già capita. Aveva già scritto, cinquant’anni fa, la diagnosi perfetta di quello che oggi chiamiamo populismo: la fascinazione del potere travestito da ribellione, l’autoritarismo venduto come libertà, il conformismo mascherato da eresia.

Pasolini sapeva riconoscere i falsi eretici. Li chiamava “trasgressivi di regime.” Quelli che si atteggiano a ribelli ma servono il potere. Quelli che gridano contro il sistema ma ne sono funzionali. Quelli che fingono di disturbare ma in realtà rafforzano esattamente ciò che dicono di combattere.

Trump, Orbán, Meloni, Salvini, Le Pen. Tutti si presentano come eretici. Tutti dicono di combattere l’”élite”. Tutti promettono di dare voce al “popolo tradito.” Ma Pasolini avrebbe visto immediatamente la truffa: non sono eretici. Sono il potere che si traveste da anticonformismo per ottenere più potere.

L’eretico vero, quello pasoliniano, disturba tutti i poteri. Non sceglie da che parte stare. Non ha amici. Non ha padroni. Non cerca consenso. Dice la verità anche quando costa caro, anche quando nessuno vuole ascoltarla, anche quando lo rende inviso a destra e a sinistra. L’eretico vero sta solo.

I populisti, invece, non stanno mai soli. Hanno il loro “popolo.” Hanno i loro media. Hanno i loro finanziatori. Hanno le loro lobby. Hanno il loro sistema, parallelo ma speculare a quello che dicono di combattere. Non disturbano il potere. Ne costruiscono uno alternativo, ugualmente oppressivo, ugualmente conformista.

Pasolini l’aveva capito già negli anni Sessanta, osservando la televisione divorare le coscienze. Vedeva come il potere non si imponesse più con la forza, ma con la seduzione. Come non servisse più censurare le idee, bastava renderle spettacolo. Come non fosse necessario opprimere il dissenso, bastava integrarlo nel circo mediatico.

“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi,” scriveva. Aveva capito che il vero fascismo non arriva con le camicie nere e i manganelli. Arriva sorridente, con la promessa di felicità, con l’offerta di appartenenza, con la lusinga del “finalmente qualcuno che dice la verità.”

E oggi? Oggi i populisti usano esattamente quel meccanismo. Non impongono un pensiero. Seducono. Non censurano i media. Li usano meglio degli altri. Non costruiscono un’ideologia coerente. Costruiscono un’appartenenza emotiva, un “noi contro loro”, una tribù dove sentirsi parte di qualcosa di più grande.

Pasolini analizzava il potere attraverso il corpo e il linguaggio. Guardava come un politico si muoveva, come parlava, quali gesti usava. E oggi, guardando Trump gesticolare sul palco, guardando Salvini che indossa la felpa e mangia la Nutella, guardando Orbán che si fa fotografare con i trattori, Pasolini riconoscerebbe immediatamente la tecnica: la costruzione di un corpo “popolare,” di un linguaggio “diretto,” di una gestualità “autentica.”

Ma è tutto studiato. È tutto performance. È esattamente lo spettacolo che Pasolini denunciava: il potere che si fa persona comune, l’élite che si traveste da popolo, il privilegio che recita la marginalità.

La differenza tra Pasolini e i populisti è semplice: Pasolini era eretico davvero. Criticava il suo stesso partito, il Partito Comunista, quando tradiva gli ideali. Attaccava i compagni quando diventavano piccolo-borghesi. Non risparmiava nessuno. Non cercava di piacere a nessuno. Non costruiva un consenso. Diceva quello che vedeva, punto.

I populisti, invece, dicono quello che il loro pubblico vuole sentire. Costruiscono il nemico su misura: l’immigrato, l’intellettuale, il burocrate europeo, il giornalista. E poi si ergono a difensori del “popolo tradito.” Ma non disturbano mai davvero i poteri forti. Non toccano mai davvero le lobby finanziarie, le multinazionali, i grandi patrimoni. Al massimo, li sfiorano. Per fare scena.

Pasolini scriveva: “Io so. Ma non ho le prove.” I populisti dicono: “Io so. E voi dovete credermi.” La differenza è abissale. Pasolini poneva domande scomode, lasciava il dubbio, costringeva a pensare. I populisti danno risposte facili, eliminano il dubbio, dispensano dal pensare.

E la cosa più grave è che funziona. Funziona perché risponde a un bisogno reale: quello di sentirsi rappresentati, di sentire che qualcuno finalmente parla la tua lingua, che qualcuno finalmente dice quello che pensi. Ma è una trappola. Perché non ti rappresenta davvero. Ti usa. Ti lusinga per ottenere il tuo consenso. Ti fa sentire parte di una rivolta che non rivolterà niente.

Pasolini oggi sarebbe anti-populista. Ma sarebbe anche anti-establishment. Attaccherebbe  Trump e  Meloni per la loro demagogia. Ma attaccherebbe anche le élite liberali per la loro ipocrisia, per il loro distacco dal popolo reale, per la loro incapacità di parlare un linguaggio comprensibile. Sarebbe contro tutti. E quindi, di nuovo, solo.

Perché questo è il punto: in un’epoca dominata dal populismo da una parte e dal tecnocratismo dall’altra, l’eretico vero non ha posto. O stai con il “popolo” (ma quello costruito dai populisti, non quello reale), o stai con le “élite” (ma quelle autoreferenziali, non quelle capaci di visione). Non c’è spazio per chi vuole pensare in modo autonomo, per chi rifiuta le tribù, per chi non vuole scegliere un campo ma vuole solo dire la verità.

Eppure è proprio di questo che avremmo bisogno. Di eretici veri. Di intellettuali che disturbino tutti, che non abbiano padrini, che non cerchino like né consenso né appartenenza. Di voci che dicano cose che nessuno vuole sentire, da nessuna parte.

Pasolini vedeva nel populismo nascente degli anni Settanta la morte della politica. Vedeva la riduzione di tutto a spettacolo, la trasformazione dei cittadini in pubblico, la sostituzione del pensiero con la reazione emotiva. E aveva ragione. Cinquant’anni dopo, viviamo esattamente in quel mondo.

I populisti hanno vinto perché hanno capito prima di tutti che la politica non è più razionalità, programmi, idee. È emozione, appartenenza, narrazione. E hanno costruito la narrazione più efficace: noi contro loro, il popolo contro l’élite, la verità contro le bugie. È una narrazione falsa, ma funziona. Perché risponde al bisogno primario di ogni essere umano: sentirsi parte di qualcosa, avere un nemico da combattere, avere un leader da seguire.

Ma Pasolini non avrebbe seguito nessun leader. Non avrebbe fatto parte di nessuna tribù. Sarebbe rimasto fuori, a guardare, a denunciare, a disturbare. Avrebbe detto la verità sui populisti: che sono il sintomo, non la cura. Che rappresentano la malattia della democrazia, non la sua guarigione. Che il loro successo è la prova del nostro fallimento: il fallimento della politica, della cultura, dell’intelligenza collettiva.

E avrebbe detto la verità anche sull’establishment che i populisti combattono: che è distante, autoreferenziale, incapace di parlare al popolo reale. Che ha creato le condizioni perché il populismo vincesse. Che non ha saputo ascoltare, capire, rispondere ai bisogni veri delle persone. Che ha lasciato un vuoto che i demagoghi hanno riempito.

Pasolini oggi scriverebbe: il populismo non è la malattia. È il sintomo. La malattia è la fine del pensiero critico, la morte del dibattito pubblico, la riduzione di tutto a slogan e tribù. La malattia siamo noi, che abbiamo smesso di pensare per conto nostro e abbiamo delegato il nostro pensiero a leader che ci dicono cosa pensare.

Ma c’è una differenza fondamentale tra gli anni Settanta di Pasolini e oggi. Allora c’era ancora spazio per l’eretico. C’erano giornali che pubblicavano le sue provocazioni, intellettuali che dibattevano con lui, un pubblico che leggeva e si interrogava. Oggi quello spazio non c’è più. L’eretico viene immediatamente categorizzato: se critichi i populisti sei “élite,” se critichi l’establishment sei “populista.” Non puoi stare fuori. Non puoi disturbare tutti. O sei con noi o contro di noi.

Eppure, cinquant’anni dopo la sua morte, Pasolini ci ricorda che c’è un’altra strada. La strada dell’eretico vero. Di chi non cerca consenso ma verità. Di chi non vuole followers ma lettori pensanti. Di chi non costruisce tribù ma semina dubbi.

Forse è una strada impossibile. Forse l’eretico oggi è davvero condannato alla solitudine assoluta, al silenzio, all’irrilevanza. Forse il tempo degli intellettuali che disturbano è finito per sempre. O forse, semplicemente, stiamo aspettando che qualcuno abbia il coraggio di Pasolini. Di dire la verità a tutti. Di pagarne il prezzo. Di stare solo, se necessario. Di essere eretico. Davvero.

di Francesco Vilotta