Quando le parole non bastano: chiude il Codice Rosa dopo l’ennesimo femminicidio. Tra commemorazioni ipocrite e servizi dissolti: la vera violenza delle istituzioni
Due mesi fa Ilaria Sula è stata uccisa. Pochi giorni fa, la stessa sorte è capitata a Martina Carbonaro, 14 anni, ad Afragola. Oggi, mentre quotidiani e telegiornali si affollano di pagine dedicate a questo nuovo femminicidio, il Policlinico Umberto I spegne lo Sportello Ospedaliero Antiviolenza “Codice Rosa”. Un atto che comunica molto più di qualsiasi consueta nota di cordoglio.
Lo Sportello “Codice Rosa” non era un’appendice burocratica, ma un luogo di primo ascolto, di protezione sanitaria e sociale per le donne vittime di violenza. Quello che doveva essere un presidio di continuità è stato spento al termine della convenzione senza un minimo preavviso alla cittadinanza studentesca né a chi, tra i corridoi dell’ospedale, avrebbe dovuto trovare conforto e risposte. Chiudere un servizio di questo tipo significa voltare le spalle a chi cerca aiuto in un momento di estrema vulnerabilità: un segnale che sa di abbandono istituzionale.
È un paradosso doloroso: le stesse mani che oggi adagiano le rose inneggiando alla memoria di Ilaria, fino a ieri non hanno trovato nemmeno il telefono per rispondere alle richieste di aiuto. Chiudere il centro antiviolenza significa lasciare sole decine, forse centinaia di donne in difficoltà: una decisione inaccettabile che merita un solo giudizio: irresponsabilità.
Martedì 3 giugno, alle ore 10:00, in viale del Policlinico 155, c’è stato un appuntamento urgente. Non una semplice manifestazione di piazza: un grido collettivo contro chi taglia fondi destinati alla difesa delle vittime. La Regione ha annunciato la chiusura perché, dicono, mancano i fondi. La realtà? I fondi esistono, ma non vengono stanziati da chi li governa. Sono risorse messe nero su bianco nel bilancio, che però rimangono seppelliti in un cassetto polveroso.
Il risultato è evidente: un colpo gravissimo per tutte le donne costrette a lottare in silenzio. In un momento in cui i dati sui femminicidi segnano numeri sempre più allarmanti, chiudere un presidio di protezione ed empowerment è un atto che lascia senza parole. Soprattutto perché, in un contesto di emergenza, i centri antiviolenza funzionano come fari: offrono un luogo sicuro, assistenza qualificata e la speranza che esista una via d’uscita.

Ma non possiamo limitarci all’indignazione. Serve capire perché accade. Dietro questa scelta ci sono meccanismi politici che considerano la tutela delle vittime un’occasione di spesa evitabile.
Il centro antiviolenza non è un lusso: è un servizio essenziale. Ogni donna in un momento di terrore – che sia una minaccia verbale, un gesto di intimidazione o un’aggressione fisica – ha bisogno di trovare una rete di supporto pronta a intervenire. Non bastano le telefonate ai numeri generici o gli elenchi di indirizzi. Serve uno sportello attivo, con operatori formati, pronti a rispondere in tempo reale alle richieste di aiuto.
Parliamo anche di responsabilità collettiva. È facile affermare “La violenza non è amore” in un post online. Poco si riflette, però, su quanto ciascuno di noi – soprattutto gli uomini – debba fare un esame di coscienza. Non vivere con la paura non è un privilegio garantito a tutte: chi è donna si trova spesso a camminare guardandosi le spalle. In questa società è ancora un uomo, spesso, a decidere chi resta in vita e chi no.
Per questo è necessario che noi, come comunità, ci mobilitiamo: non basta assistere impotenti. Serve un confronto aperto nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei gruppi sportivi. Dobbiamo diventare alleati, imparare a riconoscere i segnali di violenza e a non chiudere gli occhi. È tempo di portare l’educazione affettivanella formazione di base, affinché i concetti di rispetto e responsabilità entrino a far parte dell’esperienza quotidiana.
La vera prova di civiltà non sta nelle lacrime di commiato, ma nel mantenere attivi i presidi di protezione. Di fronte alla chiusura del “Codice Rosa”, non possiamo girarci dall’altra parte: è il momento di gridare che le donne non sono sole.
di Luca Falbo