Quando la politica sbaglia nemico: da Falcone a Livatino, il prezzo della verità

C’è un filo sottile ma resistente che lega le cronache di oggi alle pagine più tragiche della nostra storia recente. È il filo della delegittimazione, dell’attacco alla giustizia, della guerra istituzionale che, quando supera il limite del confronto, diventa pericolosa. Non solo per chi la subisce, ma per la democrazia intera.

Succede oggi, con un governo impegnato in un braccio di ferro sempre più duro con la magistratura. Succede in Calabria, dove il presidente Occhiuto ha sferrato un attacco frontale alla procura di Catanzaro, ricevendo la risposta elegante ma tagliente del procuratore capo Curcio: “Non conoscete nemmeno le leggi”.

Ma questa non è solo cronaca. È storia che ritorna. È un copione già visto. Ed è un copione che ha fatto morti.

Falcone, Borsellino e il tradimento delle istituzioni

Prima delle stragi, prima del tritolo e delle lacrime, ci fu la solitudine. Ci furono i dossier sui giornali, le critiche velenose, gli attacchi interni. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non furono solo vittime della mafia: furono vittime di uno Stato che, almeno in parte, li isolò, li lasciò soli, li rese bersagli facili. La mafia ha sparato, ma la delegittimazione ha caricato le armi. Oggi certi toni, certi attacchi alle toghe, certi tentativi di screditare chi applica la legge, non possono essere derubricati a polemica politica. Perché la storia insegna che quando lo Stato si divide, il crimine vince.

Il Beato Rosario Livatino: il giudice che non si è voltato

In questo quadro, la figura di Rosario Livatino diventa ancora più luminosa. E, insieme, più inquietante per chi finge di non capire. Livatino non era un eroe. Era un giovane magistrato che faceva il suo lavoro, con rigore, onestà, silenzio. È stato ucciso il 21 settembre 1990 dalla mafia agrigentina mentre andava in tribunale, senza scorta, perché la scorta, lui, non l’aveva mai voluta.

Ma Rosario Livatino era anche un uomo di fede profonda. Per lui la giustizia non era solo un mestiere, ma una missione. Per questo la Chiesa lo ha proclamato beato, il primo magistrato della storia agli onori degli altari. Perché morire da giudice per mano della mafia, nel nome della giustizia e della verità, è una forma di martirio.

La sua frase più celebre oggi suona come una sentenza, per tutti noi: “Alla fine non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili.”

La santità civile di Paolo Borsellino

E non è un caso se da anni si discute, anche dentro la Chiesa, della possibilità di avviare il processo di canonizzazione per Paolo Borsellino. È il riconoscimento che il martirio per la giustizia non è diverso dal martirio per la fede. Che chi sceglie di servire lo Stato fino al sacrificio estremo sta scegliendo, in fondo, la via più alta della testimonianza.

Non è retorica. È un messaggio potente: la coerenza, la rettitudine, il servizio alla comunità sono forme di santità. E lo sono tanto più quando il prezzo da pagare è la vita.Quando lo Stato si combatte da solo, vince il crimine.

C’è un tempo per il dibattito e c’è un tempo per la verità. E la verità è che quando la politica sceglie come nemico la magistratura, quando lo Stato si divide e si combatte da solo, l’unico vincitore è il crimine.

La storia dovrebbe avercelo insegnato. E invece oggi assistiamo agli stessi errori, agli stessi copioni. Cambiano i volti, restano intatte le dinamiche. Ma un Paese che delegittima chi fa rispettare la legge è un Paese che si prepara a tornare indietro. A quando chi combatteva la mafia finiva prima isolato, poi seppellito.

La lezione di Livatino è oggi, non ieri

Livatino, Falcone, Borsellino non chiedono commemorazioni. Chiedono scelte. Chiedono coerenza. Chiedono che chi ha responsabilità nelle istituzioni, nella politica, nei media, si ricordi da che parte stare. Perché la legalità non è un’opinione. È una scelta di campo. E non ci sarà chiesto se siamo stati credenti. Ci sarà chiesto se siamo stati credibili.