Repubblica verso la cessione ad Antenna: sullo sfondo l’ombra saudita e il paradosso del giornale simbolo della sinistra progressista

L’operazione che potrebbe ridisegnare la mappa dell’editoria italiana passa da un nome che, per decenni, è stato un simbolo culturale e politico. La Repubblica, per molti il giornale della sinistra progressista, sta per affrontare un cambiamento radicale: l’acquisizione da parte di Antenna Group, colosso greco dei media guidato da Theodore Kyriakou, con un’offerta che nelle ultime settimane si aggira tra i 100 e i 110 milioni di euro. È una cifra che dice molto: non abbastanza per un editore abituato a muoversi in mezzo mondo, ma sufficiente a scatenare un dibattito acceso su chi possa – e debba – guidare uno dei marchi più influenti del giornalismo italiano.

La famiglia Elkann sembra disposta a vendere quasi tutto il perimetro di Gedi: radio, concessionaria pubblicitaria, la stessa Repubblica, con i suoi allegati e la sua eredità culturale. L’unica esclusa sarebbe La Stampa, il quotidiano di Torino che John Elkann preferisce mantenere. Kyriakou, dal canto suo, ha un profilo internazionale che affonda le radici in una dinastia editoriale greca e si estende nei settori più disparati: trasporti navali, finanza, immobili, network televisivi diffusi fra Polonia, Romania, Ungheria, Cipro, Moldavia, Stati Uniti e Australia. Nel suo portafoglio manca un tassello: l’Europa occidentale. Gedi rappresenterebbe la porta d’ingresso ideale.

Ma la partita non si gioca solo su piani industriali ed espansione geografica. Ad alimentare tensioni e interrogativi è la presenza, all’interno di Antenna Group, di un investitore che cambia completamente lo scenario: il fondo sovrano dell’Arabia Saudita, il Pif, entrato nel 2022 con un investimento di 225 milioni di dollari. È il braccio finanziario del regime di Riyad, lo strumento più potente della strategia di Mohammed bin Salman per influenzare settori chiave dell’economia globale. Un fondo che compra società sportive, quote in colossi dell’intrattenimento, marchi del lusso e aziende strategiche. In Italia i sauditi hanno messo piede in nomi che fanno parte della nostra immaginazione collettiva, da Technogym a Rocco Forte, da Azimut a Pagani. E ora, potenzialmente, in uno dei quotidiani più letti del Paese.

La prospettiva che un giornale nato su posizioni progressiste venga, anche solo in parte, a dipendere da capitali legati al principe accusato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato di Istanbul, è un paradosso che ha fatto discutere molto negli ultimi mesi. Non è solo una questione di etica. È una questione di immaginario, di memoria, di coerenza culturale. E, allo stesso tempo, una questione politica, perché riguarda il rapporto fra informazione e potere, fra autonomia editoriale e strategie geopolitiche.

Non stupisce che in ambienti progressisti la cessione venga vista come una resa. Un cedimento non tanto agli stranieri – perché gli stranieri ci sono già stati, e Gedi ha avuto altri momenti di apertura verso capitali esterni – quanto a un sistema di potere percepito come incompatibile con la storia del quotidiano. Secondo ricostruzioni recenti, la stessa segretaria del Pd, Elly Schlein, avrebbe cercato di favorire controparti alternative per evitare che Repubblica finisse nelle mani di Kyriakou e, di riflesso, del fondo saudita. Un tentativo simbolico, più che operativo, ma sufficiente a far capire quanto questa vendita sia considerata un fatto politico e non solo industriale.

La posizione dei sauditi all’interno di Antenna, formalmente minoritaria, potrebbe non limitarsi a un ruolo passivo. Il Pif non investe mai senza una strategia di lungo periodo. Ha un peso economico enorme, una capacità finanziaria che supera quella degli altri soci e un interesse crescente verso i media come strumenti di soft power. La domanda che molti si fanno è evidente: che cosa significa per Repubblica un azionista legato a un regime coinvolto nel più eclatante caso di repressione contro un giornalista degli ultimi decenni? E quanto un giornale che ha fatto della denuncia, della difesa dei diritti, della libertà d’espressione il proprio tratto identitario potrà mantenere la stessa linea con un socio così ingombrante nel capitale della sua nuova casa editrice?

Nessuno ha risposte definitive. Nemmeno Kyriakou, che continua a mantenere un profilo basso e a ridurre la vicenda a un’operazione industriale come tante altre. Ma l’Italia non è un mercato come gli altri. Gedi non è un editore qualsiasi. E Repubblica non è un giornale qualsiasi. È un pezzo di storia, con le sue luci e le sue contraddizioni, ma pur sempre un protagonista della vita culturale del Paese.

La trattativa prosegue, mentre sullo sfondo cresce un senso di inquietudine, quasi di smarrimento. Non è solo la possibile vendita di un quotidiano a far discutere. È la sensazione che si stia chiudendo un’epoca. E che la nuova che arriva, fatta di fondi sovrani e geopolitica, non sappia più distinguere fra informazione e potere, fra indipendenza e influenza. Per Repubblica, per Gedi, per il giornalismo italiano, il passaggio che si sta aprendo è un banco di prova. E, forse, un punto di non ritorno.