Altro che render, plastici e conferenze stampa. In Cina, mentre in Italia si discute ancora su quante torri debba avere il ponte sullo Stretto di Messina, l’opera dei record è già realtà. Si chiama Huajiang Grand Canyon Bridge, ed è il ponte più alto del mondo: un colosso d’acciaio lungo 2.890 metri, sospeso 625 metri sopra il fiume Beipan, nel cuore della provincia montuosa del Guizhou, nel sud-ovest del Paese.
Una campata unica di 1.420 metri, una struttura che sfida vertigine e gravità e che i cinesi hanno completato in tre anni netti, con una precisione millimetrica. Chi l’ha attraversato parla di un’esperienza mozzafiato: un serpente metallico che si arrampica tra le nuvole, tanto alto da far sembrare minuscolo il Golden Gate, con cui è stato più volte paragonato. Se li mettessimo uno sopra l’altro, servirebbero nove Golden Gate per raggiungere la stessa imponenza.
Ma i numeri, da soli, non raccontano tutto. Il ponte, che collega due aree isolate divise da una gola profonda oltre mezzo chilometro, ha ridotto il tempo di attraversamento da due ore a due minuti. Un’opera strategica, certo, ma anche simbolica: è la prova di come la Cina continui a tradurre i suoi sogni infrastrutturali in realtà, mentre l’Occidente si impantana tra comitati, ricorsi e rimandi.
Costruito con materiali innovativi, il Huajiang Grand Canyon Bridge è una sorta di creatura “intelligente”: nei suoi cavi principali scorrono sensori che monitorano in tempo reale temperatura, pressione e umidità. Un sistema di “smart cables” che regola automaticamente la tensione e attiva deumidificatori per evitare la corrosione. Tutto automatizzato, tutto sorvegliato da un centro di controllo che sembra uscito da un film di fantascienza.
In totale, i progettisti hanno ottenuto 21 brevetti tecnologici, tra cui soluzioni antivento, tecniche di montaggio assistite da droni e software di allineamento satellitare. Anche l’estetica è stata curata nei dettagli: la struttura ospita ascensori panoramici, passerelle in vetro sospese nel vuoto e persino un bar sulla sommità delle torri, dove i turisti possono sorseggiare un tè guardando la gola che si perde tra le montagne.
Il ponte attraversa quello che i geologi chiamano “la crepa della Terra”, una fenditura naturale profonda e impervia. Ma in Cina l’impossibile non esiste: lo hanno costruito pezzo dopo pezzo, con 1.200 operai, spesso costretti a lavorare in condizioni estreme. Un’impresa titanica che il governo di Pechino ha celebrato come simbolo della nuova era delle infrastrutture “verdi e intelligenti”.
E in Italia? Qui il confronto diventa impietoso. Mentre il ministro Matteo Salvini continua a promettere che il ponte sullo Stretto di Messina “sarà il più bello del mondo”, il progetto rimane ostaggio di burocrazie, opposizioni, ricorsi ambientali e finanziamenti ancora da sbloccare. I cinesi, nel frattempo, costruiscono, collaudano e aprono al traffico.
Certo, la geografia dello Stretto è diversa, e la nostra sismicità non aiuta. Ma la differenza principale è culturale: in Cina l’obiettivo è fare, da noi è discutere. Il ponte del Guizhou non è solo una prodezza ingegneristica, ma anche un manifesto politico: la dimostrazione che, con risorse e determinazione, l’uomo può letteralmente unire ciò che la natura ha separato.
Il paradosso è che, se mai il nostro ponte vedrà la luce, rischierà di essere già vecchio. Altrove, le grandi opere diventano attrazioni turistiche e laboratori di innovazione. Da noi, restano temi da campagna elettorale. Forse Salvini dovrebbe davvero prendere in parola chi propone – ironicamente ma non troppo – di affidare ai cinesi il ponte sullo Stretto. Loro, almeno, in tre anni lo finirebbero.
E magari, conoscendoli, ci aggiungerebbero anche un ascensore panoramico, un bar sospeso e un Wi-Fi che funziona davvero.