Nel cuore delle carceri italiane si riapre una finestra sul mondo. L’accesso all’università per i detenuti non è un mero atto amministrativo, ma una scelta di civiltà che restituisce dignità a chi ha già pagato il prezzo più alto: la privazione della libertà.
La pena non può limitarsi a infliggere sofferenza: deve rieducare. Ecco perché portare lezioni, libri e docenti dietro le sbarre significa fare pienamente tesoro dell’articolo 27 della Costituzione, che riconosce alle pene una funzione rieducativa. In questo senso, l’università in carcere diventa una sorta di «laboratorio di rinascita»: non solo un percorso didattico, ma un processo di costruzione di identità alternative a quelle criminali. Qui, l’idea di studente si trasforma da mera etichetta a impegno esistenziale.
L’università in carcere non cancella la colpa, ma offre un senso nuovo alla pena. Lo studio diventa una forma di libertà interiore: tra le aule detentive, libri e dispense si trasformano in strumenti per ritrovare se stessi, riscoprire aspirazioni sopite e costruire un domani diverso, al di là dei reticolati. È sorprendente scoprire che un detenuto, tra un’ora di lezione e l’altra, possa scrivere una tesi sui diritti umani, interrogarsi sul passato e progettare un futuro. Questo contrasto tra le restrizionifisiche e l’espansione mentale è la vera essenza del progetto.
Negare ai detenuti la possibilità di imparare sarebbe una sentenza doppia: già costretti a rinunciare alla libertà, troverebbero deteriorata anche la speranza. Studi internazionali rivelano che un detenuto che partecipa a programmi di istruzione superiore riduce il rischio di recidiva fino al 43% rispetto a chi non frequenta corsi accademici. Un dato che non è ancora abbastanza noto nel dibattito pubblico, ma che dovrebbe far riflettere: investire nell’università in carcere non è solo un atto di pietà, ma una decisione strategica per la sicurezza collettiva.
Eppure, molti istituti penitenziari hanno avviato percorsi universitari grazie alla collaborazione tra atenei, associazioni e volontari, dimostrando come la formazione possa davvero trasformarsi in riscatto. In un carcere nel Sud Italia, in particolare a Lecce, ad esempio, un gruppo di detenuti ha costituito una «biblioteca vivente»: ognuno condivideva competenze acquisite in università passate o corsi online, traducendo testi, aiutando altri compagni a superare barriere linguistiche e creando un ambiente in cui l’apprendimento era collettivo e solidale. Questa esperienza mostra come spesso il sapere non sia solo trasmesso dai docenti, ma nasca dal confronto orizzontale tra pari.
In un altro contesto, presso un carcere minorile del Centro Italia, un progetto pilota ha avviato corsi di psicologia e sociologia con l’obiettivo di far riflettere sui meccanismi di devianza e riabilitazione. I giovani detenuti hanno lavorato su casi di studio, simulazioni e role playing, acquisendo competenze critiche utili non solo per il proprio percorso educativo, ma anche per comprendere dinamiche sociali più ampie. Questa iniziativa ha alimentato il dibattito sul ruolo delle scienze umanenell’attivazione di percorsi di cambiamento personale.
Un aspetto poco noto è l’esistenza di borse di studio specifiche dedicate all’università in carcere, finanziate da fondazioni private e da bandi europei. Queste borse coprono costi di trasporto, materiali didattici e, in alcuni casi, tutoraggio individualizzato. Tuttavia, il mancato coordinamento tra enti locali, regione e ministero della Giustizia fa sì che tali opportunità non raggiungano tutti i potenziali beneficiari. Creare reti stabili tra istituzioni è fondamentale per garantire la continuità dei corsi anche nei periodi di turnover del personale amministrativo.
Accompagnare uno studente detenuto verso la laurea significa riconoscere la sua umanità. È credere che, nonostante gli errori, l’individuo conservi una riserva di potenzialità e competenze in grado di arricchire il tessuto sociale. Formare dietro le sbarre è un investimento sulla sicurezza collettiva: persone istruitecommettono meno reati, reinserendosi con più facilità nella comunità. Chi ha vissuto il carcere sa bene che la riattivazione delle proprie capacità intellettive non è un dettaglio estetico, ma la scintilla che ravviva la speranza. Una testimonianza particolarmente toccante riguarda un ex detenuto laureatosi in storia contemporanea che, tornato in libertà, ha scelto di dedicarsi a progetti di mediazione culturale in centri per minori a rischio: un percorso che nessuno avrebbe immaginato alla luce della sua condanna.
Le storie che emergono dai corridoi delle carceri sono la miglior prova del valore di questi progetti. Da chi ottiene risultati accademici lusinghieri a chi scopre passioni nascoste per la letteratura, la matematica o le scienze, ogni esperienza è un tassello di un mosaico più grande: la società che crede nel cambiamento. In un carcere del Nord, un giovane detenuto ha ottenuto il record di crediti universitari completati in un anno, mentre un altro, dopo anni senza leggere, ha scelto di seguire un corso di filosofia, scoprendo nel dialogo con Platone una chiave per reinterpretare il proprio passato.
Un’ulteriore riflessione concerne il coinvolgimento delle famiglie: in alcuni istituti, i genitori dei detenuti partecipano a incontri con i docenti per comprendere i progressi formativi dei propri figli. Questo approccio facilita la trasmissione di un messaggio di speranza condivisa, in cui la riabilitazione non è un percorso solitario, ma un cammino che coinvolge anche legami affettivi esterni. L’effetto indiretto è la costruzione di un tessuto di solidarietà che travalica i confini delle celle.
Il cammino non è privo di ostacoli: carenza di risorse, criticità logistiche e pregiudizi culturali rallentano il passo. Le statistiche nazionali rilevano che solo il 5% delle carceri italiane ha attivato corsi universitari riconosciuti, un dato che contrasta con la richiesta di ben il 30% dei detenuti interessati a proseguire il proprio percorso formativo. Per questo serve un impegno coordinato: dalle istituzioni centrali che finanziano borse di studio dedicate, agli atenei che strutturano programmi ad hoc, fino ai docenti e ai volontari che portano il sapere là dove serve di più.
Un punto di vista originale riguarda l’utilizzo delle tecnologie digitali: mentre tradizionalmente le lezioni in carcere avvengono in presenza, diverse esperienze pilota hanno sperimentato lezioni online con piattaforme sicure, amplificando così l’offerta formativa e abbattendo le distanze geografiche. Un detenuto in Sardegna ha così potuto seguire un corso di ingegneria informatica tenuto da un docente di un ateneo del continente, partecipando a webinar e lavorando su progetti open source. Questi modelli futuribili ci mostrano come il carcere possa diventare un hub di innovazione educativa, non un luogo di esclusione.
Infine, un aspetto spesso trascurato riguarda le certificate digitalie i MOOC (Massive Open Online Courses). In alcuni casi, grazie a partnership con piattaforme internazionali, i detenuti possono ottenere certificazioni che migliorano le loro opportunità occupazionali al termine della detenzione. La diffusione di tali strumenti richiede però una maggiore cooperazione tra enti accademici e piattaforme tecnologiche, nonché una formazione digitale preliminare per i partecipanti.
La vera misura di un sistema penitenziario non è quanti ingressi registra, ma quante porte riesce a riaprire verso il futuro. L’università in carcere è un ponte di umanità: nessuno è solo ciò che ha fatto, ma può diventare anche ciò che sceglie di imparare.
di Luca Falbo