Molteno si sveglia lenta, come certi paesi di Brianza che conservano la stessa luce del passato. Le case sembrano non aver mai smesso di parlare sottovoce, soprattutto quelle affacciate sulla via Aldo Moro, la strada che oggi divide gli abitanti come una promessa troppo grande per restare silenziosa. È qui che l’amministrazione vuole intitolare un tratto a Lucio Battisti. È qui che qualcuno, invece, vorrebbe lasciare tutto com’è. Da giorni nei bar e nei cortili si discute di questa scelta come se la musica potesse davvero ridisegnare una mappa. E forse, in fondo, è proprio così.
A sentire Elio Corti, meccanico storico del paese, non c’è nulla da discutere: «Per lui farei anche di più», dice appoggiandosi al bancone come se vent’anni fossero passati in un soffio. Ha ancora nelle mani il gesto di quel pomeriggio in cui Lucio si presentò con la Beta Hpe Executive color caffelatte, motore ingolfato. Elio prese una chiave da 10, strinse una vite e in qualche modo entrò per sempre nel mito. «Non amava la confusione, pagava sempre il giusto, e sì… chiedeva lo sconto. Ma era uno di noi». Quando lo racconta, sembra che il tempo si pieghi, ed è chiaro che per lui intitolare una strada non sarebbe un omaggio ma un dovere.
Sulla collina del Coroldo, che tutti chiamano da anni “la collina dei ciliegi”, c’era il rifugio del cantante. Un luogo appartato tra la brughiera, lontano dai riflettori che Lucio rifuggiva con ostinazione. Qui abitò dal 1973 fino alla morte, e da qui partivano certe telefonate improvvise: una motofalciatrice capovolta, un guasto all’auto, un problema da risolvere senza testimoni. Elio arrivava, sistemava, tornava giù in paese. Con la semplicità delle storie che non hanno bisogno di essere ingigantite.
Il sindaco, Giuseppe Chiarella, guarda quella collina come un santuario laico. «Qui ha scritto buona parte della sua musica. È un pezzo di storia del Paese, non del paese. Vogliamo chiudere un capitolo complicato con gli eredi, vogliamo riconciliarci», spiega senza alzare la voce. Per lui l’intitolazione è una riparazione, un gesto dovuto dopo vent’anni di contenziosi e silenzi. E anche se una parte dei cittadini teme i disagi burocratici del cambio di indirizzo, il primo cittadino lo dice con fermezza: «Nessun costo, nessuna complicazione. Solo un atto di memoria».
Eppure non tutti ci stanno. Quarantaquattro firme su una petizione per dire no, e questo basta a trasformare una targa stradale in una questione di identità. Alcuni non sono neppure residenti: vivono altrove, ma Molteno per loro è ancora un posto dove la musica ha scritto tracce indelebili. In paese la discussione si accende e si smorza in continuazione, come certe canzoni che sembrano finite e poi ripartono.
Nel bar Sport, che oggi profuma di brioche e caffè, qualcuno giura di averlo visto passare in Mercedes verde nei pomeriggi d’inverno, quando il buio arrivava presto e Battisti si affacciava solo per una partita all’oratorio o per seguire un incontro della squadra locale. I più anziani ricordano quella famosa sfida celibi contro ammogliati giocata insieme a Mogol, risate a bordo campo e una leggerezza che appartiene solo alle fotografie in bianco e nero.
Alla parrocchia di San Giorgio la voce si abbassa quando si parla del funerale. «Vent’anni dentro, migliaia fuori», dice l’economo Carluccio Molteni. «Un dolore composto, silenzioso. Proprio come lui». Le immagini si confondono tra la facciata barocca e la scalinata dove i fan rimasero per ore, immobili sotto un cielo che non dava tregua.
Poco più avanti, al ristorante Riva, il profumo della faraona al forno sembra non aver mai lasciato la sala. Paola Consonni posa il grembiule e si concede un ricordo. «Dicevano che qui, su questo muretto, lui e Mogol avessero immaginato la collina dei ciliegi. Forse è vero, forse no, ma amava venire a mangiare nella saletta interna». Gnocchi di zucca, vino rosso, un sorriso riservato che cambiava appena se qualcuno lo riconosceva. La leggenda qui non ha bisogno di essere ricamata: scorre nella normalità dei gesti.
E poi c’è l’officina Corti, dove il rumore del compressore si mescola alle storie dette a mezza voce. Paolo, il nipote di Elio, ricorda le serate d’inverno, quando Battisti arrivava all’improvviso col paese deserto. Pane e salame sulla cassetta degli attrezzi, una Land Rover da sistemare, discorsi che si muovevano lenti come se il tempo non avesse fretta. «Era semplice. Davvero semplice. E rideva. Non spesso, ma quando succedeva… te lo ricordi per anni».
Molteno oggi cammina sulle sue stesse tracce e prova a capire se quella via dedicata a Lucio sia un atto simbolico o un’invasione. Ma mentre la discussione si allunga, il paese sembra aver già deciso in altro modo: continua a raccontarlo, a farlo vivere nei ricordi che risalgono spontanei, negli aneddoti che tutti giurano di aver sentito almeno una volta.
Forse è proprio qui, in questa Brianza che Battisti scelse per stare lontano da tutto, che si capisce quanto sia difficile separare l’uomo dal mito. Una strada può dividere, certo. Ma un paese intero che ne custodisce la memoria, quello no. Quello resta unito. Sempre.







