Chi sono Sajid e Naveed Akram, i due attentatori di Sydney?

Bondi Beach

Avevano raccontato in famiglia che sarebbero andati a pescare. Una spiegazione semplice, quotidiana, che non aveva allarmato nessuno. In realtà Sajid Akram, 50 anni, e suo figlio Naveed, 24, avevano un piano diverso. Prima dell’attacco avevano raggiunto un appartamento preso in affitto a Sydney, trasformandolo in un deposito operativo: lì avevano trasferito armi, munizioni e ordigni rudimentali. Quello spazio era diventato il loro avamposto. Da lì sono partiti per la strage di Hannukah a Bondi Beach.

Le nuove informazioni emerse dalle indagini australiane non escludono la pista dello Stato Islamico. Anzi, la rafforzano. Almeno per due motivi. Il primo riguarda il passato di Naveed Akram, già attenzionato dalla polizia nel 2019 nell’ambito di accertamenti su possibili legami con ambienti jihadisti. L’indagine, all’epoca, si era chiusa senza elementi sufficienti per procedere. Il secondo motivo è legato a quanto rinvenuto dopo l’attacco: nell’auto dei due attentatori sono state trovate due bandiere del Califfato. Un dettaglio che apre alla possibilità di un giuramento di fedeltà, gesto che spesso precede gli attentati di matrice islamista.

Sajid Akram, di origine pachistana, era entrato in Australia nel 1998 con un visto turistico. Nel tempo si era stabilizzato nel Paese, aprendo un negozio di frutta e verdura. Era iscritto a un’associazione di tiro ed era regolarmente in possesso di numerosi fucili, tutti denunciati. È lui ad aver risolto l’aspetto logistico più delicato dell’operazione: l’accesso alle armi. Quelle stesse armi che, secondo gli investigatori, sono state portate nello zaino durante l’assalto e utilizzate fino alla sua morte, avvenuta sotto il fuoco della polizia intervenuta per fermare la strage.

Naveed, nato in Australia, aveva seguito studi religiosi e lavorava come operaio. Un impiego perso alcuni mesi prima dell’attacco. Ora è ricoverato in ospedale in condizioni gravi ed è su di lui che si concentra la parte più sensibile dell’indagine. Gli investigatori cercano di capire quando e come sia maturata l’idea di colpire una celebrazione ebraica, se la decisione sia nata all’interno del nucleo familiare o se vi siano stati contatti esterni, ispirazioni o incitamenti.

L’azione congiunta di padre e figlio non è un elemento secondario. Il vincolo familiare è ricorrente nei gruppi integralisti perché rafforza la determinazione, riduce il rischio di tradimenti e rende più solido il percorso verso la radicalizzazione violenta. In questo caso, resta da chiarire se i due abbiano raccolto uno dei numerosi appelli lanciati dai propagandisti della jihad a colpire “ebrei e crociati” o se qualcuno abbia avuto un ruolo diretto nell’innescare l’attacco.

Le autorità australiane hanno confermato che Naveed era stato oggetto di verifiche dopo la scoperta di una cellula dell’Isis nel Paese. Non si trattava di un episodio isolato. In passato, l’antiterrorismo aveva sventato un piano organizzato da fratelli e cugini di origine libanese per abbattere un aereo passeggeri degli Emirati Arabi Uniti. I militanti, istruiti e finanziati da un referente in Siria, avevano progettato ordigni da occultare in tritacarne e bambole. Un complotto fermato in tempo, ma che aveva già dimostrato la presenza di una minaccia strutturata.

Negli anni, l’Australia è stata colpita da diverse forme di violenza estremista: accoltellamenti, aggressioni, azioni di lupi solitari. Una pressione aumentata ulteriormente con l’esplodere del conflitto a Gaza. In agosto, il governo australiano aveva espulso l’ambasciatore iraniano, accusando Teheran di sostenere atti antisemiti sul territorio nazionale. In quella vicenda era coinvolto anche un criminale comune, assoldato per compiere un’azione violenta, secondo un modus operandi che l’Iran avrebbe utilizzato in altri Paesi.

Proprio questi precedenti hanno alimentato le polemiche successive all’attacco di Bondi Beach. Secondo fonti israeliane, il Mossad aveva segnalato agli australiani il rischio concreto di attentati, non solo in Australia ma anche in altri Paesi occidentali. Da Tel Aviv si parla di una sottovalutazione del pericolo da parte delle autorità locali. Una critica che ha acceso uno scontro politico con il premier Anthony Albanese.

Ora l’indagine prosegue, con l’obiettivo di ricostruire ogni passaggio: dall’arrivo di Sajid Akram nel 1998 alla radicalizzazione del figlio, dagli accertamenti del 2019 rimasti senza esito fino alla scelta di colpire una festa religiosa sulla spiaggia. Una sequenza di segnali che, letti oggi, compongono una traiettoria inquietante.