Un archivio di oltre trentatremila file, migliaia di accessi a banche dati riservate, ricerche su esponenti politici, imprenditori, vip, sportivi e magistrati. È il cuore di una delle inchieste più delicate degli ultimi anni: quella sugli accessi abusivi alla Direzione nazionale antimafia, ora ufficialmente chiusa dalla Procura di Roma.
Il procedimento, coordinato dal procuratore aggiunto Giuseppe De Falco, vede indagati 23 soggetti, tra cui il finanziere Pasquale Striano, in servizio alla Guardia di Finanza presso la Dna, e l’ex sostituto procuratore Antonio Laudati, che in passato aveva ricoperto incarichi di rilievo nella struttura voluta da Giovanni Falcone. Secondo la ricostruzione dei magistrati, tra il 2019 e il 2022 Striano avrebbe effettuato migliaia di accessi non autorizzati ai sistemi informatici della Direzione nazionale antimafia, consultando dati coperti da segreto investigativo e talvolta estrapolandoli su supporti esterni.
I numeri impressionano: oltre 4.000 segnalazioni di operazioni sospette, più di 1.000 nominativi consultati nella banca dati Serpico, circa 2.000 interrogazioni allo Sdi – il Sistema di indagine interforze – e, soprattutto, 33.528 file scaricati dai computer della Dna. Una massa di informazioni che, a detta degli inquirenti, “testimonia un’attività sistematica e prolungata di raccolta di dati sensibili, non finalizzata a fini istituzionali”.
L’inchiesta era nata a Perugia e affidata al procuratore Raffaele Cantone, che ne aveva descritto la portata in un’audizione riservata davanti al Copasir, insieme al capo della Dna, Giovanni Melillo. L’allarme lanciato allora resta inciso nelle carte: “Occorre proteggere la Direzione nazionale antimafia, uno dei lasciti più alti del giudice Falcone. Quanto emerso desta inquietudine per la tenuta del sistema e per il rischio di dispersione di informazioni coperte da segreto”.
Nel 2023 la difesa di Laudati aveva sollevato un’eccezione di competenza territoriale, accolta prima dal gip e poi dal Tribunale del Riesame umbro. La Cassazione aveva confermato la decisione, disponendo il trasferimento dell’intero fascicolo alla Procura di Roma, dove oggi l’inchiesta si chiude con l’avviso di conclusione indagini.
Gli investigatori parlano di una “rete di accessi incrociati”, nella quale i dati venivano estratti, archiviati e in alcuni casi trasmessi a terzi. Le verifiche informatiche hanno permesso di ricostruire la cronologia degli accessi e di isolare decine di account riconducibili al militare. Ogni consultazione lasciava una traccia: nomi di politici, imprenditori, amministratori locali, magistrati, fino a cittadini comuni finiti per caso nei radar di una macchina impazzita.
L’aspetto più inquietante riguarda il possibile utilizzo dei dati. Dove siano finiti quei file resta una domanda senza risposta definitiva. Alcuni documenti avrebbero alimentato dossier di natura giornalistica o investigativa, altri potrebbero essere stati trasmessi a soggetti esterni, forse persino all’estero. Un’ipotesi ancora tutta da verificare ma che, come osservano i pm, “non può essere esclusa alla luce della natura del materiale sottratto”.
Tra i fascicoli emersi c’è anche un capitolo sui fondi della Lega, con ricerche non autorizzate su conti e società riconducibili al partito di Matteo Salvini. Gli esiti di quelle consultazioni sarebbero poi confluiti nelle procure di Milano, Genova e Bergamo, dove erano già in corso indagini parallele. “Striano teneva un diario delle pratiche svolte – scrive Cantone – e tra queste figuravano verifiche sulle movimentazioni legate alla Lega, materiale che merita ulteriore approfondimento”.
L’inchiesta ha scoperchiato anche i rapporti interni alla Direzione antimafia, dove – sostengono gli inquirenti – “la vigilanza sui terminali informatici era lacunosa e affidata alla correttezza dei singoli”. In alcuni casi gli accessi sarebbero avvenuti con credenziali di altri funzionari, in altri le password sarebbero state condivise informalmente tra colleghi.
Il caso Striano-Laudati ha travolto anche l’ambiente mediatico. Tra i 23 indagati figurano infatti alcuni giornalisti accusati di aver ricevuto informazioni o anticipazioni tratte dai database, poi utilizzate per la pubblicazione di articoli o inchieste. L’accusa, per tutti, è di concorso in accesso abusivo e diffusione di notizie riservate.
A rendere la vicenda ancora più complessa è la natura stessa della Dna, organismo cardine nella lotta alla criminalità organizzata. Ogni accesso alla sua banca dati può potenzialmente toccare indagini in corso su mafia, terrorismo, traffico di droga o riciclaggio. Per questo la procura ha adottato il massimo riserbo durante gli accertamenti, con intercettazioni, sequestri informatici e perquisizioni in più sedi istituzionali.
Ora la chiusura del fascicolo segna il passaggio decisivo verso il processo. Gli indagati avranno venti giorni per presentare memorie o chiedere nuovi interrogatori. Poi spetterà alla Procura valutare la richiesta di rinvio a giudizio.
Resta intatta la domanda che attraversa i palazzi di giustizia: chi controlla i controllori?. Se, come ipotizzano gli inquirenti, i sistemi di sicurezza della Direzione nazionale antimafia sono stati violati per anni senza che nessuno se ne accorgesse, la vicenda non rappresenta solo un caso giudiziario, ma un campanello d’allarme per l’intero Stato.
“È un’inchiesta che tocca il cuore delle istituzioni – scrive un magistrato in un appunto interno – perché dimostra che anche i luoghi più protetti non sono immuni dal rischio di abuso. Ed è proprio nei silenzi informatici che si nascondono le nuove fragilità della democrazia”.







