Un foglio scritto a mano, poche righe, un gesto definitivo: “Rinuncio all’appello”. Così Filippo Turetta, l’assassino reo confesso di Giulia Cecchettin, ha scelto di chiudere la sua battaglia giudiziaria. Nessuna strategia processuale, nessuna attenuante da invocare. “Non voglio più difendermi – scrive – accetto l’ergastolo, voglio pagare interamente per la sua morte”.
La lettera, indirizzata alla Procura generale, alla Procura ordinaria, alla Corte d’assise e alla Corte d’appello di Venezia, è arrivata in questi giorni. Un colpo di scena inatteso, a pochi giorni dall’apertura del processo di secondo grado, prevista per il 14 novembre. Fino a poche settimane fa, infatti, i suoi avvocati Giovanni Caruso e Monica Cornaviera avevano confermato la volontà di impugnare la sentenza di primo grado, contestando la premeditazione riconosciuta dai giudici.
Secondo la difesa, Turetta non avrebbe pianificato l’omicidio, ma agito in preda a un impeto di disperazione. La Corte d’assise, invece, aveva ricostruito un delitto meticolosamente organizzato, fondato su un piano lucido e spietato: una “lista delle cose da fare” prima di uccidere Giulia, la sua ex compagna, lasciava pochi dubbi sulla volontarietà e sulla ferocia dell’azione.
Ora tutto cambia. “Sono davvero pentito, non chiedo attenuanti”, scrive Turetta nel suo messaggio, semplice e scarno, ma dal peso enorme. Una scelta che sorprende anche i suoi stessi avvocati, che nei prossimi giorni formalizzeranno la rinuncia al processo d’appello. Le motivazioni di questa decisione radicale sembrano legate non solo al rimorso, ma anche al clima che lo circonda da mesi: le minacce ricevute in carcere, l’aggressione da parte di un altro detenuto, l’ostilità dell’opinione pubblica, la solitudine.
Dal carcere di Verona, dove è detenuto dal suo arresto, Turetta avrebbe confidato di non reggere più la pressione. La scelta di accettare la condanna all’ergastolo inflitta lo scorso anno appare dunque come un atto di resa totale. Ma anche, almeno nelle sue intenzioni, come un gesto di espiazione.
“Voglio pagare per quello che ho fatto”, scrive nel suo biglietto. Parole che arrivano in un momento in cui la famiglia Cecchettin, e in particolare Gino, il padre di Giulia, ha ribadito di non essere pronta ad accogliere alcun gesto di riconciliazione. Quando gli fu proposto un percorso di giustizia riparativa, l’uomo aveva risposto con fermezza: “Non è il momento. Senza scuse né perdono sarebbe solo un gesto strumentale”.
La decisione di Turetta non cambia dunque la sostanza della condanna, ma la cristallizza. Rinunciando all’appello, il giovane accetta in via definitiva la pena più grave prevista dal codice penale. Resta però in piedi il ricorso della Procura di Venezia, che ha chiesto di riconoscere anche le aggravanti della crudeltà e dello stalking, per rendere ancora più pesante la responsabilità dell’imputato.
Turetta, 22 anni, era stato arrestato in Germania dopo dieci giorni di fuga, terminata in modo quasi casuale, quando la sua auto fu intercettata dalla polizia bavarese. Durante gli interrogatori, aveva confessato senza esitazioni: “L’ho uccisa quando ho capito che non sarebbe più tornata con me”. Parole che avevano gelato l’Italia, già scossa dall’ennesimo femminicidio e da un caso che aveva assunto un valore simbolico.
Secondo la sentenza di primo grado, Giulia Cecchettin fu colpita 75 volte con un coltello l’11 novembre 2023, nei pressi del lago di Barcis, e poi abbandonata in una scarpata. La brutalità dell’omicidio e il tentativo di fuga di Turetta avevano rafforzato, per i giudici, la tesi della premeditazione.
Con la rinuncia all’appello, il caso si avvia così verso la conclusione giudiziaria. Una scelta che non cancella la tragedia, ma chiude un capitolo. L’ultimo atto di una vicenda che ha sconvolto il Paese, lasciando dietro di sé dolore, rabbia e la speranza — ancora viva — che la morte di Giulia possa servire almeno a risvegliare coscienze e a fermare, una volta per tutte, la catena di violenza contro le donne.