Chi è Vincenzo Lanni, il 59enne fermato per l’agguato di Milano. La comunità e i precedenti

l’aggressore Vincenzo Lanni

La stanza è la 106, secondo piano, un albergo modesto in via Vitruvio, a due passi dalla Stazione Centrale. Dentro, una valigia leggera, pochi oggetti, e soprattutto quel giubbotto tecnico blu e azzurro, i pantaloni scuri e la borsa della spesa verde fosforescente. I vestiti che poche ore prima, nei fotogrammi dell’aggressione a piazza Gae Aulenti, raccontavano un uomo che arriva alle spalle di una donna, affonda una lama di venticinque centimetri tra milza e polmone e poi si allontana come se nulla fosse.

Vincenzo Lanni, 59 anni, bergamasco, ex programmatore informatico, è stato trovato così. Silenzioso, immobile, quasi rassegnato. Non un gesto, non una parola. Come se sapesse che quella porta, prima o poi, si sarebbe aperta.

È stata la sorella gemella a riconoscerlo. Un frammento di volto, diffuso dalla procura su impulso del procuratore capo Marcello Viola e della pm Maria Cristina Ria. Un’immagine semplice, nitida abbastanza da non lasciare dubbi. «È lui. L’ha già fatto». Pochi minuti dopo, la centrale operativa trasmetteva l’alert. I carabinieri della compagnia Duomo e del Reparto operativo si muovevano verso l’hotel. Lanni era lì da giovedì, dopo essersi allontanato dalla comunità “4Exodus” nel Varesotto, dove era inserito in un percorso di reinserimento. Da giorni nessuno lo controllava più. Nessuno sapeva dove fosse. E lui camminava per Milano con un coltello da cucina nascosto sotto il giubbotto.

Per comprenderlo bisogna tornare indietro, nel 2015. Anche allora un’arma bianca, una borsa di tela verde sotto braccio, due anziani feriti a caso ad Alzano Lombardo e Villa di Serio. Nessun movente, nessun legame. Due sconosciuti, colpiti senza preavviso. Fu un’impiegata della biblioteca a riconoscerlo dai frame mostrati dai carabinieri. Lanni fu arrestato poco dopo e confessò tutto. «Ho deciso di uccidere per reazione al profondo stato di frustrazione per la mia vita fallimentare». E ancora, davanti ai magistrati: «Se non mi aveste fermato, avrei ucciso delle donne». Parole che oggi risuonano come una profezia tragica e compiuta.

Condannato a otto anni di carcere e tre in una struttura psichiatrica, una perizia certificò un disturbo schizoide di personalità. Parzialmente capace di intendere e volere. Socialmente pericoloso. Poi la misura in comunità. Nessun allarme pubblico. Nessun bollettino. Un uomo che il sistema riteneva recuperabile, e che giovedì – secondo quanto è stato possibile ricostruire – è stato allontanato dalla struttura per «comportamenti pericolosi e non conformi alle regole». Quattro giorni dopo, in pieno giorno, nel cuore della Milano più simbolica, ha colpito ancora.

Nessun contatto con la vittima. Nessuna parola prima dell’assalto. Lei, 43 anni, manager da due anni in Finlombarda, era scesa alla fermata Gioia e camminava verso l’ufficio attraversando la Biblioteca degli Alberi. Un tragitto quotidiano. Una routine perfetta. Nessun nome pubblico, nessun ruolo esposto. Una professionista che lavora su progetti finanziari senza sportelli aperti al pubblico. Il profilo opposto rispetto a un bersaglio consapevole.

Le telecamere raccontano la scena con la freddezza del dettaglio. Il passo sicuro, la lama che entra dal basso verso l’alto, la donna che crolla e riesce a gridare «Mi hanno accoltellata», il coltello ancora infisso nel fianco quando arrivano i primi soccorritori. Poi la fuga verso la Stazione Centrale. Un uomo solo tra migliaia di pendolari, nessuna direzione precisa, nessuna urgenza apparente. Un predatore casuale nella città ordinata.

Per ore Milano ha tenuto il fiato sospeso. Pattuglie nei sottopassaggi, controlli tra i senzatetto, gli investigatori a scrutare ogni volto nei dintorni. C’era, fin da subito, l’idea di un aggressore sconosciuto. Nessuna dinamica relazionale, nessuna vendetta, nessun debito. Lo schema del 2015, ma in una cornice completamente diversa: non una tranquilla strada della bergamasca, ma il salotto contemporaneo della città più esposta d’Italia.

Poi, alle 19.30, il frame diffuso. Alle 20, la segnalazione dall’hotel. Alle 20.15, la porta della stanza 106 si apre. Lanni non oppone resistenza. Ricorda gli uomini che lo bloccano nel 2015? È difficile dirlo. Non parla. Sta fermo. Guardava nel vuoto quando i militari gli hanno messo le manette.

Intanto, al Niguarda, la donna è stata operata per due ore. La lama ha perforato milza e polmone. Ora respira assistita in terapia intensiva. La prognosi resta riservata, ma non è più in pericolo di vita. Il marito, arrivato tra i primi sulla scena, ha parlato di «48 ore decisive». Una frase che pesa, come pesano gli occhi di chi l’ha amata vedere sparire nella luce fredda della sala operatoria.

Fuori, Milano si chiede come sia possibile. Come un uomo già condannato per un’aggressione identica, già riconosciuto socialmente pericoloso, possa riemergere così, nel cuore della città, con una lama e una borsa della spesa. Nessuna riflessione, qui. Solo domande sospese. Il resto lo diranno procure, giudici, perizie, fascicoli.

Ma una cosa è certa: il volto visto ieri nello schermo di sorveglianza è lo stesso di dieci anni fa. E quella borsa verde fluorescente, che per lui è un oggetto qualsiasi, per Milano ora è diventata un segnale inquietante, un simbolo di paura improvvisa. Un promemoria che la violenza, quella vera, è spesso muta. E quando torna, lo fa senza avvisare.