Aveva solo 14 anni, Martina Carbonaro. Ma è già finita nel lungo elenco delle ragazze uccise da chi diceva di voler loro bene. Non c’è più spazio per le metafore. Non c’è tempo per le frasi di circostanza. Martina è stata assassinata ad Afragola, massacrata con una violenza che lascia senza respiro. L’ha uccisa un ragazzo poco più grande, un coetaneo, uno come lei. È questo che fa ancora più male: non è solo la fine di una vita, è la frattura definitiva dell’innocenza.
La premier Giorgia Meloni ha parlato di “un male profondo” che non possiamo più ignorare. Ha ragione. Perché quello che è accaduto non è un fatto isolato, ma la spia drammatica di un fenomeno che scorre sotterraneo nella nostra società: la violenza come esito di un’idea malata di amore. Un amore che non è amore, ma possesso. Che non rispetta, ma controlla. Che non protegge, ma domina.
C’è una radice marcia in questa tragedia: è la convinzione, ancora diffusissima, che voler bene significhi avere diritto sull’altro. Che se ami qualcuno, puoi decidere per lui, plasmarlo, isolarlo, punirlo. Che se non ti vuole più, ti ha tradito. E allora, in nome di quel “sentimento”, puoi colpire. Persino uccidere. Una cultura patriarcale e ossessiva che si trasmette nei silenzi familiari, nei modelli mediatici tossici, nei social senza regole, nelle frasi sbagliate che sentiamo ripetere ogni giorno: “Lo fa perché ci tiene”, “È geloso perché ti ama”.
No. L’amore non uccide. L’amore non urla, non umilia, non perseguita, non colpisce. Chi lo fa non ama: pretende. E chi pretende, prima o poi, punisce. Perché non accetta l’autonomia dell’altro. Perché confonde l’amore con il potere.
Questa volta il mondo politico si è unito. La leader del Pd, Elly Schlein, ha chiesto di “mettere da parte lo scontro politico almeno su questo”. Meloni ha risposto, con parole dure, ferme. Eppure lo sappiamo tutti: non basteranno altri decreti, altre leggi. Servono, certo. Ma se non cambiamo il terreno culturale su cui cresce questa violenza, continueremo a contare le vittime. A piangere le Martine di domani.
Serve una rivoluzione educativa. Serve entrare nelle scuole non solo con i codici penali, ma con le emozioni. Insegnare ai ragazzi che l’amore non si compra, non si impone, non si misura con il controllo. Serve parlare agli adolescenti prima che sia troppo tardi. Affrontare le ossessioni digitali, il bisogno disperato di essere amati, la paura di restare soli, l’identità costruita sull’approvazione altrui. Martina aveva 14 anni. Forse non aveva gli strumenti per riconoscere quel veleno sotto le parole dolci. Ma chi glieli avrebbe dovuti dare?
Tocca agli adulti, alle famiglie, agli insegnanti, alle istituzioni. Tocca a tutti. Perché questo non è più solo un problema delle donne. È un problema della nostra civiltà. Ed è urgente.
Martina non tornerà. Ma può diventare un simbolo. Un punto di non ritorno. Un nome da gridare per dire basta. Basta all’amore malato, basta al possesso travestito da passione, basta alla violenza che cresce nel silenzio e nell’indifferenza. Che la morte di Martina sia l’ultima. Ma davvero. Non per retorica. Non per protocollo. Per giustizia. Per dignità. Per tutte.
di Ernesto Mastroianni