«Mi dicevano: ti devi ammazzare». Anna, la ragazza che ha sfidato l’omertà di Seminara

«Mi dicevano sei pazza. Ti devi ammazzare. Mi hanno insultata, minacciata, picchiata, frustata. Ma io sono qui. Piuttosto che vivere nella menzogna avrei preferito morire. Tanto quella non era vita. Era la morte in vita». Con queste parole, riportate in una toccante intervista al Corriere della Sera, Anna – nome di fantasia – racconta la sua storia. Ha ventidue anni, viene da Seminara, in provincia di Reggio Calabria, e la sua voce rompe un silenzio lungo anni: quello di un paese che ha protetto gli stupratori e abbandonato le vittime.

Quando tutto è iniziato, Anna era una ragazzina. Insieme a un’amica è stata violentata ripetutamente da un gruppo di coetanei, alcuni legati a famiglie malavitose. «Mi dicevano che avevo rovinato la reputazione di tutti», ricorda. «Mia zia e suo figlio mi hanno anche picchiata. Lei mi ha frustata con una corda, urlando che avrei fatto meglio a non nascere». Per questo oggi quelle persone hanno il braccialetto elettronico e il divieto di avvicinarsi a lei. Ma per anni la violenza fisica e quella psicologica si sono sovrapposte: da un lato il trauma degli abusi, dall’altro la condanna del paese, che ha scelto di difendere i carnefici e di giudicare le vittime.

Anna ha trovato la forza di denunciare solo nel 2023, dopo aver saputo della storia di un’altra ragazza. «Se non fosse venuta alla luce la sua vicenda, probabilmente non avrei mai trovato il coraggio di parlare. Ma quando ho scoperto cosa avevano fatto anche a lei, ho deciso di rompere il silenzio». Cinque anni di paura, minacce, isolamento. «Mi dicevano: se parli ammazziamo i tuoi familiari. Avevo il terrore».

Oggi vive in una località segreta, grazie all’intervento del governatore Roberto Occhiuto. «Ho cambiato paese da un paio di mesi e questo mi aiuta – spiega –. Prima vivevo chiusa in casa, barricata. Mi svegliavo al mattino dicendomi: oggi proverò a uscire. Ma poi non ce la facevo, restavo a letto a piangere». A starle accanto è solo la madre: «È l’unica che non mi ha mai lasciata sola. Gli altri mi hanno abbandonata». Il padre, morto da tempo, resta la sua nostalgia più grande: «Se fosse stato vivo, nessuno avrebbe osato toccarmi. Mi manca ogni giorno».

La comunità, invece, le ha voltato le spalle. I familiari degli imputati l’hanno insultata, le hanno reso impossibile anche uscire di casa. «La gente mi guardava come se fossi io la colpevole», dice. «Mi gridavano contro dalle finestre, mi accusavano di aver infangato il nome della famiglia. Ma io non ho fatto nulla di male. Sono loro che dovrebbero vergognarsi».

Accanto a tanta crudeltà, però, c’è stato anche il sostegno di chi ha creduto in lei. «La polizia e i carabinieri sono stati la mia forza – racconta Anna –. In particolare la dirigente del commissariato di Palmi, Concetta Gangemi, e il mio poliziotto di fiducia, Francesco Prestopino. Senza i loro abbracci non ce l’avrei fatta. Non li ringrazierò mai abbastanza». È grazie a loro, e al nuovo contesto protetto, che la giovane donna sta lentamente ricostruendo la sua vita.

Ma le ferite restano aperte. Nella scuola frequentata dall’altra vittima – racconta – ci sono ancora due dei condannati in primo grado, che all’epoca dei fatti erano minorenni. «Lei se li ritrova lì ogni giorno. Così rivive tutto, in continuazione. Mi domando: ma come è possibile?».

La storia di Anna non è solo il racconto di un orrore privato, ma il ritratto di un’Italia che ancora fatica a proteggere le vittime di violenza e a liberarsi dal ricatto dell’omertà. Seminara, oggi, è un paese che si interroga su se stesso. Ma la ragazza che ne è stata cacciata non guarda più indietro. «Hanno provato a spezzarmi – dice – ma non ci sono riusciti. Ho scelto la verità, anche se mi è costata tutto. Meglio morire che vivere nella menzogna».

E in quella frase, pronunciata con una calma che fa tremare, c’è tutta la distanza tra la vita e la sopravvivenza: quella di una giovane donna che, in un Sud ancora ferito, ha deciso di essere libera, anche a costo di restare sola.