Non una banda internazionale alla Arsène Lupin, nessuna regia criminale ad alto livello, zero glamour. La rapina di cui per giorni si è parlato come di un colpo studiato da professionisti del crimine si sta rivelando, parola della procura di Parigi, un’operazione rozza, condotta da piccoli ladri di periferia. È la ricostruzione che arriva dagli investigatori francesi, convinti che gli arrestati per il furto dei gioielli al Louvre non appartengano a reti strutturate o ambienti mafiosi, ma al mondo della microcriminalità.
A confermarlo è stata la procuratrice capo Laure Beccuau, che in una lunga intervista a France Info ha spiegato come i profili dei fermati non corrispondano a quelli «generalmente associati ai livelli superiori del crimine organizzato». Una frase che, in controluce, ridimensiona le suggestioni dei giorni successivi al colpo e riporta il caso su un terreno prosaico, fatto di precedenti penali, sotterfugi modesti e una fuga finita troppo presto.
Due dei fermati erano già stati intercettati nei giorni scorsi. Entrambi risultavano noti alle forze dell’ordine per reati contro il patrimonio. L’arrivo in cella di altri due sospetti ha dato ulteriore forma al mosaico: si tratta di una coppia, lui 37 anni e una fedina che conta undici condanne — quasi tutte per furto — lei 38, senza grande esposizione pubblica e soprattutto madre dei suoi figli. Una coppia normale agli occhi dei vicini, che secondo l’accusa avrebbe partecipato al colpo più discusso dell’anno in Francia.
Le prove decisive, al momento, sono genetiche. Nella cesta elevatrice utilizzata dai rapinatori sono state trovate tracce considerate “significative” dagli investigatori e attribuite all’uomo. Altre tracce appartengono alla compagna, ma per gli inquirenti sarà necessario verificare se siano state depositate direttamente o trasferite per contatto. Le analisi sono in corso, ma la presenza del DNA ha convinto la procura a procedere con l’iscrizione della coppia nel registro degli indagati e con le accuse: furto organizzato e cospirazione criminale per lui, complicità e cospirazione per lei.
In aula, la donna non ha trattenuto le lacrime. Ha negato ogni coinvolgimento, ha detto di temere per i figli e per sé stessa. L’uomo invece ha scelto il silenzio, rifiutando di rispondere alle domande degli inquirenti. Entrambi sostengono di non aver avuto alcun ruolo, ma l’impianto accusatorio, rafforzato dal passato giudiziario del 37enne, rimane solido almeno nella fase preliminare.
La dinamica ricostruita dalla polizia parla di un ingresso della coppia nella galleria mentre gli altri complici attendevano all’esterno. Poi la fuga, rapida e apparentemente improvvisata. Non tutto, però, è ancora chiaro. Gli agenti ritengono che ci sia almeno un altro componente del gruppo in fuga, e soprattutto resta il buio sui gioielli sottratti, tra cui pezzi storici come la celebre corona di Madame Bonaparte. Nessuna traccia, nessuno scambio sospetto intercettato, nessuna rivendicazione: al momento i tesori sembrano dissolti nel nulla.
È proprio questa assenza — nessun ricettatore noto, nessuna rete internazionale alle spalle — a rafforzare la tesi della procura. E allo stesso tempo, a suggerire che chi ha agito potrebbe aver sopravvalutato la capacità di smistare oggetti dal valore culturale e simbolico prima ancora che economico. Non semplici “gioielli”, ma parte della memoria esposta nel museo più visitato al mondo. Alienarli senza lasciare traccia è impresa ardua anche per un’organizzazione esperta, figurarsi per chi porta sulle spalle una lunga lista di piccoli reati e un passato di condanne.
Mentre i magistrati approfondiscono gli elementi raccolti, il pubblico resta sospeso tra delusione e sorpresa. Una vicenda che sembrava costruita per alimentare immaginari cinematografici potrebbe chiudersi con una verità più banale, fatta di improvvisazione e autogol. E con un dato che lascia un’ombra amara: i gioielli, per ora, non sono tornati al loro posto. E potrebbe volerci tempo prima che la storia trovi il suo ultimo capitolo.







