Il dolore della famiglia Grillo dopo la condanna di Ciro a otto anni per stupro, tra rabbia, silenzi e la promessa di un ricorso in Appello

Beppe Grillo

Delusione, amarezza e dolore si mescolano in casa Grillo dopo il verdetto di primo grado che ha condannato a otto anni Ciro, il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle, accusato di stupro di gruppo. Chi conosce bene la famiglia racconta di un clima segnato da silenzi e incredulità, ma anche da un’unica certezza ribadita da sempre: la convinzione che il giovane sia innocente. Attorno a lui, genitori e fratelli si sono stretti come in una roccaforte, preparandosi già a un Appello che sarà il nuovo terreno della battaglia giudiziaria.

La tensione era nell’aria da settimane. Le telefonate con gli avvocati, le riunioni a porte chiuse, le notti insonni. «Beppe e Parvin (i genitori di Ciro, ndr) erano preoccupati per una possibile sentenza dura. Un’eventualità che ovviamente scongiuravano», rivela una fonte vicina alla famiglia. «Loro credono e hanno sempre creduto nell’innocenza di Ciro», ribadisce. Un sostegno senza esitazioni, che ha radici profonde e che nel tempo si è tradotto in gesti pubblici e privati.

Tra i più noti, resta il video infuocato diffuso qualche anno fa dall’ex garante del Movimento 5 Stelle, quando la vicenda era appena esplosa. In quell’occasione, un Grillo furibondo si rivolse direttamente alle telecamere, alzando i toni contro quella che considerava un’ingiustizia: «Se dovete arrestare mio figlio che non ha fatto niente, allora arrestate me perché ci vado io in galera». Parole che fecero discutere e divisero l’opinione pubblica, segnando però una linea chiara: difendere Ciro a ogni costo.

Dopo quello sfogo, l’ex comico aveva abbassato i riflettori, mantenendo un profilo più basso. Nessun altro intervento clamoroso, solo poche frasi lasciate filtrare, sempre nella stessa direzione. Con una convinzione rimasta intatta anche oggi, dopo la sentenza: per Beppe e Parvin, il figlio resta innocente. «È un pensiero inamovibile», sottolineano persone che frequentano da anni la famiglia.

Il verdetto è arrivato a Genova, città natale e simbolica per i Grillo, dove ieri erano tutti presenti. La notizia della condanna è piombata come un fulmine, congelando ogni altro progetto. Dalla probabile causa civile che Beppe si appresta a intentare per la questione del simbolo del Movimento, fino al docufilm su cui stava lavorando da mesi, tutto è stato sospeso. Ogni energia è stata spostata sul fronte giudiziario e familiare.

La compattezza in questi giorni è stata totale. La moglie di Grillo, Parvin Tadjk, i figli e lo stesso Beppe hanno fatto quadrato intorno a Ciro, che a fine anno diventerà padre. Un elemento che ha aggiunto peso emotivo a una vicenda già drammatica, trasformando il dolore in determinazione. «Questa storia li ha cementati ancora di più, se possibile», dice chi li conosce bene.

La speranza di una assoluzione è rimasta viva fino all’ultimo, nutrita dalle parole della difesa e dalle attese di un verdetto meno severo. Ma quando il collegio giudicante ha letto la condanna a otto anni, il gelo è calato nella sala e nel cuore dei familiari. Da allora, silenzio. Nessuna dichiarazione ufficiale, nessuna conferenza stampa, nessun post social. Nessun video, soprattutto, come quelli che in passato avevano incendiato la scena pubblica.

Oggi resta soltanto il dolore, quello che non si urla ma si custodisce dentro. Chi frequenta Beppe racconta di un uomo colpito ma non piegato: «Non si arrenderà al primo ostacolo», garantisce chi lo conosce bene. «Questa decisione gli darà ancora più determinazione. Con Beppe bisogna abituarsi alle sorprese».

Il futuro passa inevitabilmente dal ricorso in Appello, già annunciato dall’avvocato di famiglia, Enrico Grillo, nipote del fondatore del M5S. Sarà la nuova battaglia, il terreno in cui provare a ribaltare la sentenza e ottenere l’assoluzione. Ma nel frattempo resta anche il riflesso politico di una vicenda che scuote il cuore del Movimento. Attivisti e parlamentari hanno scelto il silenzio, evitando commenti pubblici che avrebbero potuto infiammare ulteriormente la situazione. Lo stesso Beppe, che per anni è stato voce e anima della protesta, ora sembra muoversi in un registro diverso: meno palco, più chiusura domestica.

Nella villa di Sant’Ilario, sulle colline di Genova, le giornate scorrono in un’atmosfera sospesa. Qualcuno parla di lunghe passeggiate in giardino, di porte serrate e telefoni che squillano invano. Gli amici storici si sono stretti accanto, ma le visite sono state ridotte al minimo. A dominare è un dolore che non trova sbocchi pubblici, e che viene vissuto come una prova da affrontare insieme.

In questo clima pesa anche la prospettiva personale di Ciro. L’arrivo imminente di un figlio cambia il quadro emotivo, rendendo ancora più difficile immaginare una vita segnata da una condanna definitiva. È un aspetto che gli stessi familiari sottolineano con forza: «Non possiamo pensare che un ragazzo che sta per diventare padre debba portare sulle spalle una colpa che non è sua», dicono.

La vicenda resta dunque sospesa tra due poli: da un lato la certezza giudiziaria espressa dal Tribunale, dall’altro la convinzione ostinata della famiglia. Nel mezzo, il percorso lungo e complesso dell’Appello, che sarà seguito con attenzione dall’opinione pubblica. Ogni passaggio processuale riaprirà ferite, ogni udienza sarà un nuovo capitolo di questa storia.

Per il momento, l’unica certezza è quella che la famiglia ripete a porte chiuse e agli amici più vicini: «Noi crediamo all’innocenza di Ciro». Una frase che accompagna ogni sguardo e che rappresenta il filo rosso della vicenda, dalla notte dell’accusa fino al giorno della condanna.