L’inchiesta sulla morte dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci continua a produrre domande che superano il perimetro dell’agguato avvenuto il 21 febbraio 2021. Ora, una testimonianza trasmessa alla Procura di Roma nel quadro delle indagini difensive dei familiari del diplomatico apre un fronte inatteso: quello della destinazione reale del convoglio. Non più soltanto una missione umanitaria verso la zona di Rutshuru, ma un percorso che potrebbe aver lambito un territorio ad altissima sensibilità strategica, la miniera di pirocloro-niobio di Lueshe.
Il nuovo testimone, un operatore che si trovava nella regione durante l’attacco e che per ragioni di sicurezza ha chiesto la massima riservatezza, fornisce una versione dettagliata e supportata da documentazione tecnica. Parla di coordinate e immagini che, incrociate con le mappe dell’area, indicherebbero un tragitto diverso da quello finora descritto nei rapporti ufficiali. Una deviazione verso un’area in cui ha sede una delle più importanti miniere di niobio dell’Africa centrale, oggetto negli ultimi anni di una crescente attenzione da parte di Mosca. Il niobio, elemento raro e prezioso, è utilizzato per produrre leghe capaci di resistere a temperature estreme, fondamentali nella realizzazione di velivoli ipersonici e sistemi d’arma ad alta tecnologia.
È questo il contesto che, secondo la fonte, potrebbe spiegare la dinamica dell’agguato. L’attacco al convoglio, avvenuto all’altezza di Kibumba, ha seguito modalità che già colpirono gli investigatori sul posto: l’uccisione immediata dell’autista, la sottrazione dell’ambasciatore, il tentativo di trascinarlo verso la collina coperta di vegetazione, e infine lo scontro con i ranger presenti nell’area. Una sequenza rapidissima, che gli aggressori non riuscirono a controllare. Iacovacci, nel tentativo di proteggere Attanasio, venne ucciso, e il diplomatico morì poco dopo a causa delle ferite riportate.
La testimonianza depositata in procura introduce un elemento ulteriore: la presenza di operai impegnati nella zona delle “Tre Antenne”, un’area in cui da tempo vengono svolte attività di sorveglianza e lavori di manutenzione. L’incontro con il personale di sicurezza avrebbe cambiato i piani degli assalitori, trasformando quello che poteva essere un sequestro in un duello armato finito in tragedia. Il testimone afferma anche di temere per la propria incolumità, avendo subito furti sospetti nella sua abitazione, un dettaglio che – secondo chi ha raccolto la sua deposizione – va considerato nel quadro di una regione segnata da intimidazioni e rappresaglie frequenti.
La Procura romana, che dopo il non luogo a procedere nei confronti dei due dipendenti del Pam ha mantenuto aperto il fascicolo contro ignoti, sta ora valutando la mole di materiale presentato: fotografie aeree, tracciati digitali, e riferimenti incrociati che potrebbero fornire una lettura più ampia delle motivazioni dell’agguato. Resta infatti da comprendere perché il convoglio viaggiasse senza scorta armata in un’area tra le più instabili del Nord Kivu, nonostante l’itinerario fosse classificato come “green”.
Il testimone, secondo chi l’ha ascoltato, avrebbe pronunciato una frase che pesa più dei dettagli tecnici: «Nessuno sa la missione che aveva l’ambasciatore». Un’affermazione che non fornisce risposte, ma suggerisce che la tragedia possa essere maturata in un intreccio di interessi che coinvolgono milizie locali, bande criminali e attori internazionali impegnati nel controllo delle materie prime strategiche del Congo.
Nei prossimi mesi i magistrati dovranno stabilire l’attendibilità della fonte e la coerenza dei materiali prodotti. Un compito reso più difficile dalla complessità geopolitica di un territorio in cui conflitti, traffici di minerali e zone grigie del potere convivono da anni. L’unica certezza è che la ricerca della verità continua a muoversi in un campo minato, dove ogni nuova testimonianza può ribaltare scenari dati per acquisiti.







