«Respira? Si riprenderà?». Nel corridoio dell’Umberto I la voce di Mariana si spezza e rimbalza contro pareti gelide, dove speranza e paura si stringono come mani che tremano. Ha gli occhi rossi, il volto scavato da una giornata infinita e la certezza che fino all’ultimo, suo marito, il suo Octav, abbia lottato con tutto ciò che era rimasto nel suo corpo ferito. Accanto a lei la figlia Alina, appena arrivata dalla Puglia, stringe tra le dita il lembo di una sciarpa come fosse una promessa: «Papà sta lottando. Lui lotta e lotterà». Lo crede davvero. Lo vogliono credere entrambe, dopo undici ore di incubo, sussurri, respiri trattenuti, mani giunte.
Poi, come una lama che non fa rumore ma lacera comunque, arriva il verdetto dei medici: Octav non ce l’ha fatta. Il cuore si è fermato. Roma lo piangerà, scriverà qualcuno. Ma prima di Roma, lo piangono loro, madre e figlia, in quell’attimo sospeso in cui il mondo sembra diventare più piccolo e ingiusto.
Octav Stroici era un operaio. Uno di quelli che vivono nelle giunture invisibili delle nostre città. Nato a Suceava, nel nord della Romania, 66 anni fa, aveva scelto l’Italia come casa. Monterotondo, nello specifico, un passo fuori Roma, dove la vita è meno rumorosa e l’aria sa di famiglia. Una moglie che lo aspettava ogni sera, una figlia che gli raccontava la sua nuova vita, ricordi che si mescolavano tra due Paesi, ma un solo cuore.
Lavorava nei cantieri, «lunga esperienza», dicono le carte. Esperienza che non basta, a volte, quando le pietre cedono e la storia diventa trappola. Era stato chiamato a lavorare al restauro della Torre dei Conti, quel frammento medievale incastonato nel cuore della Capitale. Con l’orgoglio di chi costruisce, ripara, custodisce il tempo degli altri.
Alle 11.30 di quella mattina, il rumore è stato secco, un boato che ha squarciato l’aria dei Fori Imperiali. Turisti increduli, polvere bianca, panico. Una costola della torre si è staccata, precipitando come un gigante stanco. Quattro operai sotto, tre salvati subito. Lui no. Octav rimane intrappolato in un ventre di ferro e pietra. «Fate presto, non posso muovermi. Non resisto più. Salvatemi». È la sua voce, filtrata dal buio. I vigili del fuoco gliela restituiscono con coraggio: gli calano ossigeno, gli parlano, scavano anche a mani nude. Ogni secondo rischia di essere l’ultimo. Ogni respiro è un atto di fede.
Roma trattiene il fiato. Sotto i fari della Protezione civile, il tempo diventa gomma: si allunga, si deforma, pesa. Sessanta soccorritori, un ministro, un sindaco, ma più di tutti una donna e una figlia che non lasciano il margine del perimetro. Le vedi, le senti: Mariana che guarda la gru, senza mai abbassare lo sguardo. Alina che stringe le braccia attorno al corpo come per proteggersi dal freddo che non c’è.
Alle 22, la svolta. Lo tirano fuori. Un applauso che dura pochi secondi, troppo fragili per chiamarsi sollievo. Octav è vivo, ma il suo corpo è una richiesta d’aiuto lacerata. Lo depongono in barella, poi in ambulanza. Gli praticano un massaggio cardiaco. La corsa all’Umberto I è speranza in movimento. La città guarda, la notte cade, le pietre del passato tacciono.
Poi arriva l’attesa. Le parole di Mariana sono pietre che cadono in un pozzo profondo: «Adesso basta lavorare. A Octav mancava solo un anno alla pensione. Poteva mettersi in disoccupazione. Ma ha continuato a lavorare». Non lo dice con rabbia, non c’è rancore. C’è la logica dei giusti: quella che pretende che la fatica abbia un senso. Che il lavoro nobiliti e non uccida.
Quando il medico si affaccia e scuote la testa, non è solo una vita che si spegne. È un pezzo di città che crolla insieme a quella torre. È la verità amara che gli eroi non sempre hanno divise lucide. A volte portano caschi sporchi di calce e mani screpolate. A volte parlano poco e amano molto.
Octav Stroici non era un simbolo. Non voleva esserlo. Era un uomo che costruiva muri per dare futuro agli altri. È morto così, dentro la città che aveva imparato a chiamare casa, con una moglie che lo aspettava e una figlia che credeva nella sua tenacia.
Roma oggi lo piangerà, sì. Ma dovrà anche ricordare il suo nome. Perché dietro ogni pietra c’è un uomo. Dietro ogni restauro c’è una vita. E dietro ogni tragedia ci sono domande che restano, come quelle di Mariana: «Respira? Si riprenderà? Tornerà a casa?». No, questa volta no. E quel silenzio che segue è tutto ciò che una città, una comunità, può e deve imparare ad ascoltare.







