«Voleva l’immortalità sterminando la famiglia»: la sentenza sul 17enne di Paderno Dugnano che uccise padre, madre e fratellino

Aula di Tribunale

Per il giudice che lo ha condannato a 20 anni, il ragazzo era «lucido, manipolatore e attratto dal nazismo». La sua idea folle: «raggiungere l’eternità eliminando gli affetti più cari».

Era convinto di poter raggiungere l’immortalità sterminando la propria famiglia. Un pensiero “stravagante e bizzarro”, ma non al punto da renderlo incapace di intendere e volere. È quanto scrive la giudice Paola Ghezzi del Tribunale per i minorenni di Milano nelle 51 pagine di motivazioni della sentenza che, lo scorso giugno, ha condannato a vent’anni di carcere Riccardo Chiarioni, il ragazzo di Paderno Dugnano che nel 2024, a soli 17 anni, uccise il padre Fabio, la madre Daniela e il fratellino di dodici anni.

Secondo il tribunale, il giovane non ha agito in preda a un raptus, ma ha pianificato ogni dettaglio. «Ha lucidamente programmato, attuato e variato secondo il bisogno le proprie azioni – scrive la giudice – distinguendo la realtà dall’immaginazione». Non un delirio, dunque, ma un piano consapevole e terribilmente razionale.

Il massacro si consumò nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre. Dopo una cena di famiglia per festeggiare il compleanno del padre, Riccardo attese che tutti si addormentassero. Impugnò un coltello da cucina e colpì prima il fratellino, poi la madre e infine il padre, con un accanimento definito dai giudici «spietato e sconcertante». Le coltellate furono 108.

Dalla perizia dello psichiatra Franco Martelli emerse che il ragazzo viveva “tra realtà e fantasia”, ossessionato dall’idea di un mondo alternativo, quello dell’“immortalità”, che per raggiungere avrebbe dovuto liberarsi di ogni affetto terreno. Ma il tribunale non ha riconosciuto il vizio parziale di mente, ritenendo che il giovane fosse perfettamente consapevole del male che stava compiendo.

«Ha mantenuto lo stesso livello di organizzazione mentale durante tutte le fasi del delitto – scrive la giudice – non apparendo in alcun momento dissociato o instabile». A spingerlo, secondo la sentenza, sarebbero stati «potenti stati emotivi, rabbia ed odio narcisistici accumulati nel tempo», che hanno alimentato «un’aggressività fuori controllo».

Nelle motivazioni, la giudice Ghezzi definisce Chiarioni «un manipolatore, scaltro e attratto dal nazismo», ricordando come sul suo telefono fossero state trovate immagini del Mein Kampf e messaggi di contenuto fascista, omofobo e violento. L’ideologia estremista, secondo i magistrati, avrebbe rappresentato una cornice di riferimento per il suo “delirio di onnipotenza”.

Il comportamento successivo alla strage, dicono i giudici, è la prova della sua piena lucidità. Il ragazzo tentò di depistare le indagini inventando versioni contraddittorie: prima cercò di far ricadere la colpa sulla madre, poi sul padre, e solo quando si rese conto che gli investigatori non gli credevano confessò. Una strategia, secondo la giudice, «tesa a eludere le investigazioni per garantirsi l’impunità».

Pur applicando le attenuanti generiche e lo sconto di pena previsto per la minore età, la giudice ha inflitto la pena massima consentita per un minorenne giudicato con rito abbreviato: vent’anni di reclusione. «L’atto – si legge – è stato compiuto con freddezza, lucidità e intelligenza criminale. Un delitto che non trova giustificazione nel disagio psichico, ma nella volontà di dominio».

Il padre, Fabio Chiarioni, era un ingegnere informatico; la madre, Daniela Albano, lavorava in uno studio legale. In paese erano conosciuti come una famiglia tranquilla, molto unita. Nessuno, raccontano i vicini, avrebbe mai potuto immaginare che il figlio adolescente covasse un simile odio. «Una famiglia normale», sottolinea la sentenza, «che non ha mai dato segni di conflitto».

Per la difesa, rappresentata dall’avvocato Amedeo Rizza, la decisione del tribunale è ingiusta. «Non condivido la motivazione – ha spiegato –. Il giudice non ha considerato l’effettiva incidenza della patologia di Riccardo sul reato. È stata accertata una parziale infermità mentale, ma non è stata riconosciuta. Il ragazzo va curato, non solo punito». Il legale ha già annunciato ricorso in appello.

Il caso di Paderno Dugnano ha scosso profondamente l’opinione pubblica. Un dramma che ha riportato alla ribalta il tema del disagio giovanile e della solitudine digitale. Riccardo, raccontano gli amici, trascorreva gran parte del tempo davanti al computer, tra videogiochi, forum e canali che inneggiavano alla violenza e all’ideologia nazista. Aveva cancellato ogni traccia della sua vita sociale, chiudendosi in un mondo virtuale che avrebbe finito per fagocitarlo.

Un mondo che lui stesso, nei primi interrogatori, definì “l’altra realtà”. Un luogo immaginario dove «nessuno muore mai» e dove «l’amore è solo una catena». Parole che oggi tornano nei passaggi più duri della sentenza, quando la giudice scrive che «il progetto di eliminazione dei familiari era l’unico modo, nella sua mente distorta, per svincolarsi da un legame percepito come prigione».

Nel frattempo il ragazzo, che oggi ha quasi diciannove anni, si trova in un istituto penale minorile. Frequenta un percorso psicoterapeutico e, secondo chi lo segue, alterna fasi di apparente serenità a momenti di totale chiusura. «Non mostra rimorso – scrive la giudice – ma piuttosto un senso di estraneità rispetto ai fatti commessi».

La procura di Brescia, intanto, ha disposto ulteriori accertamenti su alcune comunicazioni online rinvenute nei suoi dispositivi, per verificare eventuali contatti con gruppi estremisti.

Una tragedia senza spiegazioni che, un anno dopo, continua a interrogare la giustizia e la psichiatria. L’eco di quella notte di sangue, nella villetta di via della Repubblica, resta come un enigma oscuro: un ragazzo che voleva diventare eterno cancellando chi gli aveva dato la vita.