Dai canti gregoriani alle sinfonie di Beethoven, dalle arie d’opera raccontate da una madre al suo bambino fino alla voce tremula di un Papa inciso su un cilindro: la storia dei pontefici è anche una storia di musica, bellezza e spiritualità, un viaggio senza tempo dove ogni nota diventa preghiera e ogni melodia una carezza all’anima del mondo.
«La musica è bellezza, è strumento di pace, è una lingua che tutti i popoli parlano per raggiungere il cuore di tutti, può aiutare la convivenza degli uomini». Con queste parole, Papa Francesco aveva voluto lasciare il suo segno al Festival di Sanremo 2025, in un videomessaggio trasmesso sul grande schermo dell’Ariston, accolto da una lunghissima standing ovation. Era un Francesco ormai stanco, provato, ma ancora capace di toccare le corde profonde dell’anima collettiva. Nessuno, quella sera, poteva sapere che sarebbe stato uno dei suoi ultimi messaggi pubblici. Eppure, ascoltandolo, si percepiva qualcosa di più grande: un congedo gentile, una consegna, quasi un testamento.
«La musica è bellezza, la musica è strumento di pace. È una lingua che tutti i popoli, in diversi modi, parlano e raggiunge il cuore di tutti. La musica può aiutare la convivenza dei popoli», aveva aggiunto Papa Francesco, con quell’insistenza tenera che era diventata la sua cifra stilistica. Poi, come solo lui sapeva fare, aveva aperto il cuore: «Penso, in questo momento, a mia mamma che mi raccontava e mi spiegava alcuni brani di opere liriche facendomi conoscere il senso di armonia e i messaggi che la musica può donare». Un bambino, una madre, una casa semplice: era lì, in quelle note raccontate, che Francesco aveva imparato il suono dell’amore.
Il rapporto tra i Papi e la musica è un filo che attraversa la storia come un lungo canto. A metà Ottocento, Pio IX (1792-1878) fu uno dei primi a capire quanto la musica potesse servire non solo come ornamento liturgico, ma come vero e proprio strumento di elevazione spirituale. Il grande Gioachino Rossini, genio del melodramma italiano, gli dedicò una Cantata nel 1846. E nel 1869 fu Charles Gounod, il compositore francese, a scrivere l’Inno e la Marcia Pontificia, musiche che ancora oggi riecheggiano solennemente nelle grandi occasioni vaticane.
Con Leone XIII (1878-1903) la modernità entrò definitivamente nei Sacri Palazzi. Fu il primo pontefice a essere filmato, nel 1896, da Vittorio Calcina, e anche il primo a lasciare alla storia la propria voce incisa su un cilindro fonografico, nel 1903: una benedizione che attraversò, letteralmente, il tempo e lo spazio. Capì che le nuove tecnologie, compresa la registrazione sonora, avrebbero avuto un ruolo chiave nel dialogo tra Chiesa e mondo moderno.
San Pio X (1903-1914), canonizzato successivamente, rimase invece profondamente legato alla musica sacra nella sua forma più pura. Nel 1903 pubblicò il famoso Motu Proprio Tra le sollecitudini, che ribadiva la centralità del canto gregoriano e del polifonico “stile palestriniano” nella liturgia. Per Pio X, la musica della Chiesa doveva essere preghiera sonora, non spettacolo mondano. Nel 1911 fondò la Scuola Superiore di Musica Sacra, un’istituzione che ancora oggi forma musicisti capaci di unire tecnica e spiritualità.
Anche Benedetto XV (1914-1922), pontefice della tragedia della Grande Guerra, riconobbe nella musica un rifugio e una speranza. Nel 1918, rivolgendosi agli studenti e ai docenti della Pontificia Scuola Superiore di Musica Sacra, elogiò il loro impegno, consapevole che in un mondo ferito, la musica restava una delle poche vie per risanare l’anima collettiva. In un’Europa devastata dalle trincee, dove il dolore pareva soffocare ogni canto, il Papa invitava a non spegnere la melodia della speranza.
Con Pio XI (1922-1939), il rapporto tra la Chiesa e la modernità si fece ancora più stretto, quasi inevitabile. Fu lui a inaugurare la Radio Vaticana nel 1931, grazie all’ingegno di Guglielmo Marconi. Per Pio XI, la musica non era solo un ornamento liturgico o un passatempo colto, ma una via privilegiata per parlare al cuore dei fedeli. Quando ricevette in dono la prima registrazione completa della Bohème di Puccini, incisa per lui da Rosetta Pampanini e Tancredi Pasero, si racconta che ne rimase profondamente commosso.
Pio XII (1939-1958), Eugenio Pacelli, era forse il Papa più intimamente legato alla musica, non solo come fruitore, ma come vero conoscitore. Aveva studiato violino da giovane e ne conservava l’amore. Aveva due canarini, Hansel e Gretel, battezzati con nomi presi dall’opera di Humperdinck, e ascoltava regolarmente opere e concerti trasmessi alla radio, anche nelle lunghe sere di solitudine. Amava Wagner, Schumann, Brahms: la grande musica romantica tedesca che aveva conosciuto durante gli anni trascorsi come nunzio a Monaco e Berlino. Quando, nel 1950, la Rai trasmise in diretta Parsifal di Wagner con una giovane Maria Callas, fu proprio Papa Pacelli a richiedere di ascoltarla. Ne rimase folgorato. Due anni dopo volle incontrare il soprano greco in udienza privata, e si racconta che tra i due nacque un dialogo intenso e sorprendente sulla musica e sull’importanza di conservarne la purezza e l’autenticità.
I concerti tenuti in Vaticano durante il suo pontificato — come quello dell’orchestra sinfonica di Israele nel 1955, in segno di gratitudine per l’aiuto dato agli ebrei durante la guerra — furono momenti di altissima tensione spirituale e politica insieme. Nel suo magistero lasciò due documenti fondamentali: l’enciclica Musicae Sacrae Disciplina (1955), che riaffermava l’importanza della musica sacra come parte integrante della liturgia, e la Miranda Prorsus (1957), dedicata a cinema, radio e televisione, dove già si intuiva il peso crescente dei nuovi linguaggi audiovisivi.
Poi arrivò Giovanni XXIII (1958-1963), il “Papa buono”, il sorriso che scaldò il mondo. Roncalli non fu un musicista, né un grande conoscitore tecnico di musica, ma amava profondamente il canto, soprattutto quello popolare e liturgico. Da Patriarca di Venezia aveva conosciuto Mario Del Monaco, e ne apprezzava la voce vigorosa, capace di scuotere anche i cuori più distratti.
Con Paolo VI (1963-1978), al secolo Giovanni Battista Montini, la musica entrò nella Chiesa dalla porta principale della cultura. Montini era un intellettuale finissimo, un appassionato di letteratura, filosofia e arte, un Papa che vedeva nella bellezza un riflesso della verità divina. Amava la musica classica, in particolare Monteverdi, Pergolesi, Beethoven e Brahms. Non era raro che nei suoi discorsi citasse il potere trasformativo della musica, il suo essere un ponte naturale tra il visibile e l’invisibile.
Quando era arcivescovo di Milano, negli anni del boom economico, Montini si trovò a dialogare con una società in rapida trasformazione. Erano gli anni della rivalità tra Maria Callas e Renata Tebaldi, due miti della lirica italiana. E fu proprio Montini ad accogliere entrambe, in modi diversi: Tebaldi portandole in dono il cachet di alcuni concerti per l’Unicef, Callas sostenendo l’inaugurazione di un auditorium destinato ai cappuccini. Fu il primo Papa a concedere un’udienza generale aperta a tutti gli artisti — musicisti, attori, registi, pittori — il 7 maggio 1964, un gesto rivoluzionario per l’epoca. “Abbiamo bisogno di voi”, disse loro, “Voi siete maestri!”.
E poi arrivò Giovanni Paolo II (1978-2005), il Papa venuto da lontano, il poeta, l’attore, l’uomo che sapeva vivere la musica come dramma e come speranza insieme. Karol Wojtyła aveva calcato i palcoscenici da giovane, aveva scritto opere teatrali, aveva amato profondamente il teatro come scuola di umanità. Non sorprende che nel suo lungo pontificato il legame tra la Chiesa e la musica si sia fatto ancora più intenso, più quotidiano, più popolare. Amava la musica classica, certo — Verdi, Mozart, i grandi oratori sacri —, ma fu anche il primo Pontefice adabbracciare senza timori la musica contemporanea, il pop, il rock, il soul. Assistette a un memorabile concerto alla Scala di Milano nel 1983, diretto da Riccardo Muti, e ricevette in Vaticano artisti di ogni genere: da Placido Domingo a Bob Dylan, da Aretha Franklin al Coro dell’Armata Rossa.
Scrisse la splendida Lettera agli artisti nel 1999, in cui riconobbe agli artisti il compito di “dare forma alla bellezza”, quella stessa bellezza che “è lo splendore della verità”. E quando, nel 2001, partecipò al Congresso Internazionale di Musica Sacra, ricordò con passione come la musica avesse il potere di elevare l’anima oltre le fatiche della vita quotidiana.
Con Giovanni Paolo II, la musica divenne non solo un ornamento delle celebrazioni, ma un compagno di viaggio della Chiesa. E non era raro vedere il suo volto sorridente, battendo il tempo con le mani durante un’esibizione, come un nonno che si lascia conquistare dalle emozioni più semplici e autentiche.
Poi arrivò Benedetto XVI (2005-2013), Joseph Ratzinger, il Papa teologo, il raffinato intellettuale che della musica aveva fatto compagna inseparabile fin dall’infanzia. Se Giovanni Paolo II aveva portato l’arte sulla scena pubblica della Chiesa, Benedetto XVI portò la musica nelle stanze più intime della fede. Per lui la musica era un riflesso diretto della Creazione, un linguaggio capace di parlare dell’invisibile con una potenza più grande di qualunque discorso.
Suonava il pianoforte con discrezione e amore, preferendo le composizioni di Mozart, Bach e Beethoven. In una delle sue confessioni più delicate, scrisse che ascoltare Mozart era “come percepire i battiti stessi di Dio”. Non c’era bisogno di proclami, né di spettacoli: per Benedetto XVI, la musica era il luogo dell’incontro silenzioso tra l’anima e il Mistero.
Ratzinger amava raccontare che, da ragazzo, andava con i genitori a Salisburgo per ascoltare i concerti: la Nona di Beethoven, la Messa in do minore di Mozart. Ricordi che avevano plasmato il suo sguardo sul mondo, insegnandogli a riconoscere, nella bellezza autentica, un’eco della verità eterna: “La musica nasce dalla gioia e dal dolore, ma alla fine si dissolve nel silenzio del cielo”. Con Benedetto XVI, la musica tornava ad essere un cammino mistico, un pellegrinaggio interiore.
Infine, Papa Francesco (2013-2025), l’uomo venuto “dalla fine del mondo”, che aveva portato con sé nel cuore il ritmo appassionato del tango argentino e la semplicità dei canti popolari. Non era un musicista, Francesco, ma conosceva profondamente il potere della musica di toccare l’anima dei poveri, degli scartati, di coloro che troppo spesso vengono dimenticati.
In ogni viaggio, in ogni incontro, Francesco cercava la musica: che fosse il canto di una comunità indigena, l’inno struggente di una piccola parrocchia, o le note solenni di un’orchestra internazionale, poco importava. Per lui, ogni espressione musicale era una carezza di Dio. Durante il suo pontificato, ha aperto le porte del Vaticano ad artisti di ogni provenienza: ha incontrato Katy Perry e Bono degli U2, ha ascoltato Andrea Bocelli, ha sorriso davanti alla partecipazione rispettosa di Patti Smith. Non gli interessava lo stile o il genere musicale: gli interessava la sincerità, la capacità della musica di costruire ponti tra le anime.
E come dimenticare il momento in cui Aretha Franklin, durante l’incontro mondiale delle famiglie a Filadelfia, cantò “Amazing Grace” davanti a lui? Francesco ascoltava rapito, senza pregiudizi, riconoscendo nella voce della “Regina del Soul” quella nostalgia di infinito che solo la musica, a volte, sa evocare. Nei suoi ultimi anni, la musica è rimasta per lui una compagna discreta ma fedelissima. Non era raro che, nei momenti privati, chiedesse di ascoltare una sinfonia di Beethoven o un semplice canto popolare argentino, lasciandosi attraversare da quelle note come da una brezza di casa.
E adesso che Papa Francesco è tornato alla Casa del Padre, sembra quasi naturale immaginarlo lì, accolto da un coro senza fine, in cui ogni nota è preghiera e ogni armonia è abbraccio.
Perché, come aveva detto lui stesso, “la musica è bellezza, è strumento di pace, è una lingua che tutti i popoli parlano”. E ora, nel mistero della vita eterna, quella lingua la parla anche lui.