Pace, amore, Europa. L’Eurovision era nato così, negli anni Cinquanta, con uno spirito a metà tra sogno hippy e missione politica: unire i popoli attraverso la musica, cementare le democrazie liberali sopravvissute al nazifascismo e tenere acceso il riflettore su un continente che usciva dalla guerra fredda con l’idea che cantare insieme fosse il contrario della divisione. Oggi quello stesso palcoscenico scintillante è diventato un campo minato.
Entro dicembre, le emittenti nazionali dovranno decidere se confermare la propria partecipazione all’edizione 2026 che si terrà a Vienna. Ma già quattro Paesi hanno alzato il muro: Irlanda, Islanda, Slovenia e Olanda hanno dichiarato che non ci saranno se Israele sarà ammesso in gara. Un boicottaggio annunciato, che spacca il cuore del concorso più seguito del mondo e obbliga l’Ebu, la European Broadcasting Union, a una scelta che non ha nulla di musicale.
A guidare l’ultima defezione è stata la tv pubblica olandese Avrotros, che ha spiegato le ragioni con parole nette: “La decisione è dovuta alla continua e grave sofferenza umana a Gaza, alla limitazione della libertà di stampa e all’esclusione del giornalismo internazionale indipendente, oltre alle numerose vittime tra i reporter”. Un linguaggio che, nell’universo pop e festaiolo dell’Eurovision, suona come un macigno.
Il direttore generale del concorso, Martin Green, ha provato a calmare le acque: «Comprendiamo le preoccupazioni e i punti di vista delle emittenti. Spetta a ciascun Paese decidere se partecipare e rispetteremo le scelte di ognuno». Ma la sensazione è che la questione non sia destinata a spegnersi con dichiarazioni diplomatiche.
Il precedente esiste, anzi due. Nel 2021 la Bielorussia fu esclusa dall’Eurovision dopo la rielezione contestata di Lukashenko, l’anno dopo toccò alla Russia per l’invasione dell’Ucraina. Ma non fu l’Ebu a muoversi in prima battuta: l’organizzazione reagì solo dopo che diversi Paesi avevano minacciato di non presentarsi. Uno schema che si ripete.
E Israele? La sua presenza al concorso non è un dettaglio. Dal 1973 il Paese partecipa e ha sempre vissuto l’Eurovision come un palcoscenico politico oltre che musicale: un modo per ribadire la propria appartenenza all’Occidente e all’universo delle democrazie liberali. Quattro vittorie, decine di finali, un pubblico affezionato. Ma oggi quell’immagine si è incrinata.
La guerra a Gaza, con oltre 60mila morti stimati in gran parte civili, ha trasformato la percezione di Israele in Europa. Il legame tra l’Ebu e Kan, l’emittente pubblica israeliana, è diventato un nodo difficile da sciogliere. Kan stessa, creata dopo lo smantellamento della vecchia Iba giudicata “troppo di sinistra”, è sotto pressione da anni. Il governo Netanyahu l’ha spesso accusata di scarsa fedeltà, arrivando a minacciarne la privatizzazione. Una scelta che, se mai realizzata, violerebbe i requisiti stessi per partecipare al concorso, riservato alle televisioni di servizio pubblico indipendenti.
Gli analisti ricordano che la missione dell’Ebu non è neutrale: sostenere i media pubblici nelle democrazie liberali. “Per questo motivo – spiega Chris West, autore del saggio Eurovision: A History of Modern Europe through the World’s Greatest Song Contest – l’organizzazione si sente in dovere di proteggere Israele. Ma così rischia di mettere a repentaglio la credibilità dell’intero marchio”.
La politica, dunque, si intreccia con la musica come mai prima. A maggio anche il premier spagnolo Pedro Sánchez aveva invocato l’esclusione di Israele. Intanto le pressioni aumentano: se un blocco di Paesi decidesse di non presentarsi, l’Eurovision rischierebbe di perdere la sua legittimità. Ma se l’Ebu cacciasse Israele, la reazione sarebbe altrettanto violenta, con accuse di parzialità e censure ideologiche.
In questo scenario, la metafora delle “due Europe” torna prepotente. Da un lato quella che vede nell’Eurovision un simbolo di libertà e pace, e che non può accettare sul palco chi viene accusato di bombardare civili e censurare la stampa. Dall’altro quella che rivendica il valore fondativo del concorso: dare voce a tutte le emittenti pubbliche, anche quelle scomode, per costruire un dialogo culturale che la politica non sa più garantire.
Resta una domanda di fondo, che aleggia tra le note delle canzoni e i discorsi ufficiali: l’Eurovision può davvero restare solo un festival musicale quando il mondo fuori brucia?