Halloween e letteratura: dalle origini celtiche ai maestri dell’orrore in pellicola

scene da “Shining”

C’è una notte, quella del 31 ottobre, in cui le porte fra i mondi e sovramondi sembrano incrinarsi. Halloween, oggi travestimenti e zucche sorridenti, nasce in realtà da un’antichissima festa celtica: il Samhain, momento di passaggio in cui l’anno finiva e i morti facevano ritorno fra i vivi, reclamando attenzione e memoria. Una soglia simbolica, dunque, dove luce e tenebra si confondono, e che il cristianesimo trasformò nella vigilia di Ognissanti. La commercializzazione moderna non ha cancellato quella radice primitiva: resta, viva e insistente, l’idea che la notte possa farsi racconto, che il brivido sia una forma di antica sapienza.

È proprio la letteratura, da secoli, il terreno privilegiato di questa pedagogia dell’ombra. Ogni Halloween, più che un rito sociale, sembra rinnovare una lunga tradizione narrativa: il bisogno di evocare la paura per contenere l’indicibile. Dal gotico inglese di Mary Shelley e Bram Stoker, dove Frankenstein e Dracula incarnano l’alterità del diverso e il perturbante della scienza, alla visionarietà di Edgar Allan Poe, che fa della follia un labirinto linguistico, l’orrore letterario non è mai mero spavento: è inquietudine metafisica, domanda sul limite, curiosità verso ciò che la ragione scarta.

scene da “Shining”

Accanto a loro risuonano altri nomi, altre ombre: i fantasmi educati e terribili di Henry James, il fatalismo demoniaco del Faust goethiano, la crudeltà filosofica di Il monaco di Lewis, i demoni di Dostoevskij che si annidano nella coscienza più che nelle cripte, e l’inquietudine più sottile dei racconti di Maupassant, dove l’orrore sussurra e raramente urla. Il paesaggio diventa urbano e psicologico con Lovecraft e i suoi abissi cosmici, fino ad arrivare a Stephen King, che porta i fantasmi nel quotidiano, dimostrando che l’orrore, oggi, vive nel frigorifero acceso di una cucina suburbana, non nelle cripte umide di un castello abbandonato.

E non siamo estranei, noi lettori italiani, a questi brividi: Tarchetti e la scapigliatura, Verga quando racconta la superstizione nera delle sue campagne, il fantasma della memoria ne I sepolcri di Foscolo, il gelo metafisico del Deserto dei Tartari di Buzzati, dove il nemico non arriva mai perché è già dentro l’attesa, e persino Pirandello, che popola la vita di maschere e larve interiori: spiriti senza lenzuola, ma tanto più perturbanti perché psicologici, insinuanti, quasi quotidiani.

Nosferatu di Murnau

E se il cinema è stato spesso chiamato a tradurre in immagini ciò che i libri avevano già inciso nella nostra paura, vale la pena ricordare almeno qualche titolo di quella grande galleria del terrore: Nosferatu di Murnau, ombra vampirica che inaugura il mito moderno dell’incubo visivo; Psycho di Hitchcock, dove l’orrore nasce dalla normalità e il mostro vive in una casa che potremmo abitare anche noi; Halloween di Carpenter, che restituisce alla festa il suo volto più oscuro; The Shining di Kubrick, sinfonia claustrofobica sull’isolamento mentale; e le derive sanguigne e simboliche della saga di Alien, dove il mostro è archetipo materno e minaccia primordiale.

In fondo, Halloween è un pretesto, un sipario che si apre su una scena già da tempo affollata di fantasmi. La letteratura dell’orrido invita a guardare negli occhi la parte più fragile di noi: quella che teme la notte, ma ne è irresistibilmente attratta. Ogni storia di paura, se ascoltata davvero, è un atto di riconciliazione con la nostra finitezza: il vero mostro è ciò che non sappiamo di noi; il vero terrore, la possibilità di riconoscerci nello specchio incrinato che l’arte, più delle feste, ci mette davanti.

E allora, mentre fuori risuonano risate mascherate e lumini tremolano tra le zucche, la pagina resta la nostra lanterna più fedele: fiammella fragile, ma capace di rischiarare il buio antico che ancora ci abita. Perché l’orrore, buono o cattivo che sia, è sempre un ritorno all’umano, e nessun travestimento potrà mai proteggerci da ciò che, nel profondo, temiamo di essere.

di Ernesto Mastroianni