Sandokan, quello nuovo, è andato in scena fino all’ultima puntata come una grande festa televisiva. Un’operazione in grande stile, oltre trenta milioni di euro di budget, una macchina produttiva imponente e un protagonista scelto per catalizzare attenzione e consenso. Il risultato, dal punto di vista degli ascolti, è innegabile: più di quattro milioni di spettatori su Rai 1, un successo che mancava da tempo e che racconta chiaramente una cosa sola: il pubblico italiano ha ancora voglia di avventura, di epopee, di mondi lontani, di eroi larger than life.
Ed è proprio da qui che nasce la delusione più grande. Perché quella fame d’avventura è stata soddisfatta sacrificando l’autore che quell’immaginario lo aveva inventato. Emilio Salgari non è un marchio da appiccicare su un prodotto esotico, non è un serbatoio di nomi da riutilizzare a piacimento svuotandoli di ogni significato. È un universo narrativo preciso, riconoscibile, coerente, costruito con una fantasia febbrile che nasceva da una necessità esistenziale: immaginare l’altrove per sopravvivere. Ed è questo, più di qualsiasi errore storico o geografico, che nello sceneggiato manca del tutto.
Intendiamoci: Can Yaman è bello, carismatico, fotogenico. Ma la bellezza non fa un personaggio, e Sandokan non è un manifesto. Sandokan è una contraddizione vivente: principe e pirata, ribelle e romantico, feroce e leale, un uomo schiacciato da un codice morale assoluto. Qui, invece, diventa una figura levigata, spesso muta, incastrata in una sceneggiatura che sembra più interessata a costruire icone che caratteri. E no, non è un problema dirlo. Difendere questa operazione appellandosi all’“interpretazione autoriale” è come presentare una serie intitolata Zorro con un eroe vestito di rosa, in motocicletta, amico del sergente Garcia e residente a New York: si può fare tutto, certo, ma poi non stupiamoci se qualcuno protesta.
Prima di esprimere un giudizio definitivo, però, lo sceneggiato l’ho visto fino in fondo. Per principio. Perché prima di criticare bisogna conoscere. Fino all’ultimo ho sperato in una sterzata, in una rivelazione, in una sorpresa capace di ricomporre il quadro. Niente. Puntata dopo puntata, la sensazione è stata quella di assistere a un accumulo di errori: storici, geografici, botanici, narrativi. Non dettagli da pedanti, ma falle strutturali che rendono fragile tutto il racconto.
Certo non mi aspetto che le folle di fans osannanti a priori del bel turco della tv si siano accorti del fatto che i dayak parlavano con l’accento giapponese del doppiatore dello spot della Suzuki Hybrid (cosa improbabile dal punto di vista geografico), o che le armi, gli abiti, le divise usate nella serie fossero tutte fuori contesto. Così come non credo che siano saltati sulla sedia sentendo Marianna parlare di ipotermia o sentirla insegnare a dire “ciao” ai piccoli nativi in un mondo dove una ragazza non sarebbe mai potuta andare in giro scalza a cavallo con uno sconosciuto. Ma la basi, almeno quelle: Yanez non è un ex prete, Sandokan non è cresciuto in un bordello di Singapore, i tigrotti non sono una ciurma di pirati scalcagnati, dalla pelle bianca (o nera) e piena di tatuaggi da taverna che sembrano usciti pari pari da un film di Jack Sparrow.
Il vero disastro è la sceneggiatura. Scritta male, priva di logica interna, con snodi narrativi arbitrari e personaggi che entrano ed escono senza evoluzione né profondità. Così prevedibile che sai già come andrà a finire.Yanez è un gigione che ha con Sandokan non il rapporto fraterno della saga salgariana, ma una sorta di amore/odio: figure che dovrebbero essere incandescenti e che invece restano sagome. Ancora una volta, Salgari non pervenuto. Non come voce, non come visione, non come rispetto.
Questa è forse l’imputazione più grave che chi ha amato i libri, muove alla nuova serie. Se invece di chiamarla Sandokan e usare alla ma va là che vai bene i nomi dei personaggi salgariani, si fosse intitolata “I Pirati della Malesia”, forse staremmo parlando di un successo sotto ben altri punti di vista. Ma come si fa a tirare in mezzo un personaggio per poi cambiarlo radicalmente? Cosa direbbero i fans di Superman se togliesse la classica tutina rossoblù, si vestisse di giallo e diventasse cattivo?
E questo pesa ancora di più se si considera la vita dell’uomo che Sandokan lo ha creato. Un’esistenza segnata dalla povertà, dall’isolamento, dalla malattia mentale della moglie, dalla fatica di sopravvivere scrivendo. Una vita finita in suicidio. E che suicidio! La fantasia come unica zattera, l’immaginazione come rifugio. In un’epoca che predica empatia, inclusione e attenzione alle fragilità, si è deciso scientemente di calpestare questa eredità, usando i personaggi di Salgari come gusci vuoti per raccontare tutt’altro.
Il risultato è un frullatore narrativo in cui affiorano echi di mille storie diverse: Pirati dei Caraibi, Mission, La Passione di Cristo, Laguna Blu. Persino Titanic. Un collage disordinato che nulla ha a che vedere con l’immaginario salgariano. Qualcuno obietterà che anche il Sandokan originale non era un manuale di filologia storica. E che ancora meno lo era lo sceneggiato anni ‘70. Vero. Ma una cosa sono le licenze poetiche, un’altra è smontare un’opera e rimontarla al contrario. La fiction con Kabir Bedi cercava di ricreare l’universo salgariano entrando dentro in punta di piedi. Questa butta giù la porta, entra con gli stivali sporchi di fango e prende a calci ogni cosa vandalizzando la storia e trasformandola in una soap.
Certo, l’operazione tenta di difendersi. La scelta di rendere la storia imprevedibile, di non seguire l’esito noto dei romanzi, di far vivere Marianna e trasformarla in piratessa. L’espediente di inserire Salgari come personaggio presente nella trama, che “trova” Mompracem e decide di riscrivere la storia. Una mossa meta-narrativa che vorrebbe immunizzare tutto dall’accusa di tradimento. Ma è un alibi fragile. Dire “sto cambiando tutto” non rende automaticamente legittimo farlo, soprattutto se ciò che resta è un racconto impoverito.
È vero anche che molti hanno seguito fino alla fine. Persino chi si era indignato alla prima puntata. La curiosità ha vinto sulla rabbia. Ed è comprensibile: quando una storia è nuova, la suspense funziona. Ma usare personaggi celebri per raccontare altro è un’operazione rischiosa, soprattutto quando si parte da un classico così definito.
E poi c’è Mompracem. Non la Tortuga, citata dall’improbabile Yanez di Preziosi, come un generico rifugio esotico. Mompracem è un’idea: libertà, resistenza, ultimo baluardo contro l’oppressione. Ridurla a citazione sbagliata, confonderla, svuotarla di senso è forse l’ultimo insulto. Dopo questa devastazione narrativa, una sola richiesta resta legittima: abbiate pietà. Se proprio volete continuare, inventate pure nuove storie, nuovi mondi, nuovi eroi. Ma lasciate stare Mompracem. Perché quella, almeno quella, merita rispetto.







