Italia, il Paese della rabbia: la violenza che cresce tra i giovani e invade le scuole

L’Italia è diventata il Paese della rabbia. Lo racconta, ogni giorno, la cronaca nera dei giornali nazionali. “Ucciso un sedicenne a Capizzi, nel Messinese. Gli inquirenti dicono che non era lui il bersaglio”. E ancora: “A Boscoreale, nel Napoletano, un diciottenne muore sotto i colpi d’arma da fuoco mentre chiacchierava in piazza con gli amici: un agguato, forse un regolamento di conti”. Poche ore prima, un ventottenne alla guida di un suv, dopo una notte di alcol e cocaina, travolge e uccide un poliziotto. “Non sapevo d’averlo colpito”, ha detto agli inquirenti.

È la cronaca delle ultime ventiquattro ore, ma potrebbe essere quella di qualsiasi giorno. Le pagine di cronaca raccontano sempre più spesso storie di aggressioni, accoltellamenti, risse tra adolescenti. È la fotografia di un malessere profondo, di un ricorso alla violenza che non conosce più limiti. Storie identiche da Nord a Sud, perché ormai non esiste più una “zona tranquilla”. Le città, grandi e piccole, sono tutte coinvolte. Famiglie, scuole, associazioni sembrano impotenti: non sanno come reagire, non hanno strumenti per fermare questa scia di violenza che cresce di giorno in giorno.

“Non siamo di fronte a episodi isolati, ma a un malessere sociale diffuso”, spiega il sociologo Paolo Crepet, che da anni studia i comportamenti giovanili. “La perdita dei punti di riferimento, la solitudine, l’assenza di adulti credibili e di limiti educativi stanno creando una generazione che reagisce alla frustrazione con la violenza”.

Concorda la sociologa Chiara Saraceno: “L’aggressività è diventata linguaggio. I ragazzi vivono immersi in un clima dove conta apparire forti e vincenti, dove la vita dell’altro vale poco. A tutto questo si sommano la cultura dello sballo, l’uso crescente di droghe e alcol già tra i minorenni e una totale assenza di educazione emotiva”. La rabbia, però, non resta più confinata alle strade: è entrata anche nelle scuole.
Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, tra gennaio 2023 e febbraio 2024 si sono verificati 133 episodi di aggressioni contro docenti, dirigenti e personale scolastico. Circa 70 sono stati commessi da studenti, il resto da genitori.

“Sono dati impressionanti e sottostimati”, avverte Marco Rossi-Doria, ex sottosegretario all’Istruzione. “Molti insegnanti non denunciano, per paura o rassegnazione. Ma la scuola è diventata un campo di battaglia: genitori che aggrediscono i professori, ragazzi che sfidano apertamente l’autorità. È il segnale di una società che ha smarrito il rispetto”. E la violenza non risparmia neppure i ragazzi. Una recente indagine ISTAT rivela che quasi il 70% degli studenti tra 11 e 19 anni ha subito almeno un episodio offensivo o aggressivo. Il 21% parla di vessazioni ripetute ogni mese, l’8% ogni settimana. Le offese e gli insulti riguardano il 55,7%, le aggressioni fisiche l’11%, l’esclusione sociale il 43%.

A tutto questo si aggiunge il cyberbullismo, in crescita costante: il 19% dei giovani tra 14 e 26 anni dichiara di esserne stato vittima. “Oggi la violenza non si ferma fuori dalla scuola”, spiega una psicologa dell’Osservatorio Indifesa di Terre des Hommes. “Continua online, dove l’aggressione diventa umiliazione pubblica e la vittima non ha più via di fuga”. Dietro questi numeri si nasconde un filo rosso: l’assenza degli adulti. Famiglie sempre più fragili, scuole in difficoltà, istituzioni deboli. “La scuola ha perso autorevolezza e il senso civico non si insegna più”, osserva ancora Rossi-Doria. “I giovani crescono in un vuoto affettivo e culturale che la rete riempie con modelli distorti e violenti.”

I protocolli antibullismo esistono in quasi tutte le scuole, ma solo un ragazzo su cinque sa chi è il referente a cui rivolgersi. In molti istituti manca persino un sistema di segnalazione anonima. La scuola osserva e segnala, ma spesso non sa reagire. E tutto sembra vano. Così, giorno dopo giorno, ci ritroviamo davanti a un titolo, un volto, un dolore che si ripete. Giovani vite spezzate. Ma ciò che spaventa di più è l’assuefazione. “Ci stiamo abituando alla violenza, come se fosse inevitabile”, avverte Crepet. “Finché non ci toccherà da vicino, continueremo a scrollare le spalle davanti all’ennesima tragedia”. Questa ondata di violenza non nasce dal nulla. È il frutto di anni di impoverimento culturale, educativo e relazionale. La scuola è stata lasciata da sola, e perfino i genitori spesso giustificano i figli violenti. Ma lasciare sola la scuola è un errore gravissimo. Servono educatori, psicologi, formazione per i docenti, ma soprattutto un nuovo patto educativo tra famiglie, istituzioni e società. Perché non è normale che, in un Paese civile, un professore venga picchiato da un genitore o che un sedicenne muoia in strada per uno scambio di persona. Non è normale, ma sta diventando realtà quotidiana. Stiamo accettando tutto, finendo per essere complici involontari di un male che ci sta disumanizzando.

E allora la domanda è inevitabile, amara, urgente: che cosa abbiamo insegnato ai nostri figli perché l’Italia arrivasse fino a questo punto? O, forse, la verità è che abbiamo semplicemente smesso di insegnare?      

Battista Bruno