C’è una scena, nella nuova serie Netflix “Mrs Playmen“, in cui Carolina Crescentini, nei panni di Adelina Tattilo, cammina per via Veneto con lo sguardo di chi sa di aver appena acceso una miccia. È il 1967, e nelle edicole italiane compare Playmen, una rivista per soli uomini che promette foto di donne nude ma in realtà contiene un messaggio più profondo: raccontare il desiderio come parte della libertà. Dietro quella copertina patinata non c’è una trovata commerciale, ma l’idea di un Paese che vuole scrollarsi di dosso secoli di colpa e censura.
Tattilo, nata a Manfredonia nel 1928, è una delle figure più sorprendenti del Novecento italiano. Giornalista, editrice, donna autonoma in un mondo di uomini, fu la prima a intuire che l’Italia stava per scoprire il piacere. Playmen nacque per scardinare il tabù del corpo femminile, trasformando l’erotismo in linguaggio estetico e culturale. Non era pornografia, ma un esperimento editoriale di rottura. Ogni numero era un piccolo atto politico, un gesto di libertà travestito da intrattenimento.
Molti la chiamarono “la Hugh Hefner de’ noantri”, ma Adelina Tattilo non copiò Playboy: lo reinventò. Laddove la rivista americana celebrava il sogno maschile fatto di sigari, whisky e lusso, Playmen propose un erotismo più ironico, più italiano, più colto. Le sue copertine non erano solo corpi, ma racconti. Accanto ai servizi fotografici, curati da grandi maestri dell’obiettivo, comparivano articoli di Luciano Bianciardi, Umberto Eco, Leonardo Sciascia, Mario Vargas Llosa, Fellini e interviste a Fred Astaire e Allen Ginsberg. Il tutto accompagnato dalle vignette surreali di Jacovitti e da inchieste di taglio giornalistico.
Nel 1967 l’Italia era un Paese in pieno fermento: la rivoluzione dei costumi bussava alle porte, la legge sul divorzio era ancora lontana, e la televisione alternava i sermoni di don Mazzi ai seni velati di Raffaella Carrà. In questo clima Playmen divenne uno specchio perfetto di un popolo che voleva cambiare senza dirlo ad alta voce. Gli italiani la compravano di nascosto, ma la leggevano davvero. Le sue 400.000 copie vendute ogni settimana negli anni Settanta raccontano meglio di ogni saggio sociologico la fame di libertà del Paese.
Lo scandalo arrivò nel 1969, quando la rivista pubblicò le foto di Jacqueline Kennedy nuda nella piscina di Aristotele Onassis. Le copie andarono a ruba, le polemiche infuriarono, e Playmen entrò nel mito. Da quel momento nulla fu più come prima: la Tattilo finì sotto processo, ma anche sotto i riflettori. Quando Playboy le fece causa per plagio, nel 1982 ottenne il divieto di distribuzione negli Stati Uniti. Lei incassò il colpo con eleganza: “Hanno paura di me, e hanno ragione”.
Nel mondo dell’editoria maschile, Adelina Tattilo era un’anomalia assoluta. Parlava di sesso senza chiedere permesso, dirigeva uomini, trattava i corpi come simboli di libertà e non come oggetti di consumo. Aveva intuito che la provocazione poteva essere emancipazione, e che dietro ogni scandalo si nascondeva una domanda di verità. Per questo si definiva “una socialista libertaria”, più vicina ai radicali che ai moralisti.
Quando, negli anni Novanta, la rivoluzione digitale e le videocassette hard travolsero la carta patinata, Tattilo non si arrese. Trasformò la sua casa editrice in un laboratorio di riviste di tecnologia, hobby e fotografia, continuando a pubblicare con la stessa curiosità. La sua Playmen chiuse, ma il mito restò: quello di una donna che aveva cambiato la forma e il linguaggio del desiderio.
Oggi la serie Netflix ne restituisce il ritratto con la lente del costume, ricordando che dietro le foto osé c’era una mente geniale e un Paese che stava imparando a guardarsi allo specchio. Tattilo non fu la pioniera dell’erotismo, ma della libertà. Portò il sesso in edicola, ma anche la cultura, la politica, la leggerezza e il diritto di essere se stessi. Nel 1967, mentre il mondo ballava con i Beatles e sognava la Luna, lei insegnò agli italiani che il vero tabù da superare non era il corpo, ma la paura di desiderare.







