“Noi adulti abbiamo fallito”. I giovani sono iperformati e iperconnessi, ma sottopagati e ipercontrollati

giovani – futuro

“Noi adulti abbiamo fallito”. È un’accusa che pesa come una condanna quella pronunciata da Massimo Recalcati, psicanalista e intellettuale tra i più lucidi del nostro tempo. Non è solo una riflessione morale, ma una diagnosi che investe in pieno il presente, e che ci costringe a guardarci allo specchio. Ai giovani abbiamo lasciato un mondo ferito, esausto, inospitale. E, peggio ancora, continuiamo a chiedere loro di salvarlo.

Per comprendere il disagio generazionale di oggi, occorre fare un passo indietro. Le generazioni nate tra il secondo dopoguerra e gli anni ’70 hanno goduto, in larga parte, di un periodo di crescita senza precedenti: occupazione in crescita, welfare in espansione, istruzione accessibile a tutti, forte crescita dei diritti civili. Un’epoca, insomma, in cui il futuro appariva non solo possibile, ma migliore del presente.

Tutto cambia a partire dagli anni ’80: la finanziarizzazione dell’economia, il tramonto dell’industria pesante, la deregolamentazione del lavoro, l’avvento della globalizzazione selvaggia. Le conquiste sociali iniziano a sgretolarsi. Il mito del progresso si svuota. E intanto, in silenzio, la crisi ecologica si avvicina al punto di non ritorno.

Nel 2024 l’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) ha certificato che nessuna regione del mondo è più al riparo dagli effetti del riscaldamento globale. Ondate di calore letali, eventi climatici estremi, desertificazione, migrazioni forzate. I giovani di oggi, nati nei primi anni Duemila, non conoscono un pianeta stabile. Sono cresciuti tra gli scioperi per il clima e i blackout energetici, tra allarmi ambientali e promesse disattese.

Il Green Deal europeo, il PNRR, le COP internazionali: parole che rischiano di suonare come placebo. Perché mentre i governi promettono transizioni “sostenibili”, le multinazionali continuano a trivellare, deforestare, inquinare. E i ragazzi vedono tutto. Sentono che il tempo è finito. E si arrabbiano. O si ritirano.

I dati Eurostat del 2025 parlano chiaro: oltre il 32% dei giovani italiani tra i 20 e i 34 anni è disoccupato o sotto-occupato. Il 42% lavora con contratti precari. Il 65% non può permettersi di andare a vivere da solo. In altri paesi europei la situazione è migliore, ma il trend è comune: la cosiddetta “gig economy” ha smantellato ogni certezza.

La promessa secondo cui “studia, lavora, farai carriera” non vale più. I giovani sono iperformati e iperconnessi, ma sottopagati e ipercontrollati. Vivono una precarietà cronica che si traduce in ansia, depressione, fuga. Per molti di loro, il futuro è diventato una minaccia, non una speranza.

Miti infranti: individualismo, successo e consumismo

Nel frattempo, il modello valoriale ereditato dalle generazioni precedenti si è rivelato fallimentare. Il culto della prestazione, dell’immagine, del successo individuale, veicolato da media e social, ha prodotto un deserto emotivo. Il mito dell’imprenditore di sé stesso ha spinto milioni di giovani a interiorizzare il fallimento come colpa personale.

Ma come si può essere ottimisti quando il mondo ti chiede di essere flessibile, performante, competitivo, mentre ti toglie le condizioni minime per vivere con dignità?

La salute mentale giovanile è in crisi. L’OMS ha lanciato l’allarme già nel 2022: l’ansia e la depressione sono in aumento tra gli adolescenti in tutto il mondo, aggravate dalla pandemia, dalla solitudine digitale, dall’instabilità sociale. In Italia, secondo l’ISS, tra i 14 e i 24 anni il suicidio rappresenta la seconda causa di morte.

Recalcati parla di un “corpo morto da trascinare”. Ma la morte non è biologica: è simbolica. È il futuro che manca. È la sensazione di essere soli in un mondo disabitato da senso. È la fatica di vivere in un tempo che sembra sospeso, in attesa di qualcosa che non arriva.

Il punto, come ricorda Recalcati, non è solo il fallimento educativo o politico. È l’incapacità degli adulti di trasmettere una visione del mondo che valga la pena abitare. Abbiamo lasciato ai giovani un pianeta esausto, un’economia cannibale, un sistema di valori centrato sul profitto, non sulla persona. E ci siamo ritirati, spesso, in un cinismo complice o in una retorica vuota.

Ma i giovani non chiedono pietà. Chiedono ascolto. Chiedono coerenza. Chiedono alleanze. Chiedono, ancora, che qualcuno creda nel loro futuro.

Non è troppo tardi. Non del tutto. Esiste ancora una possibilità: quella di riconoscere l’errore, restituire fiducia, ripensare il patto generazionale. Non servono parole rassicuranti, ma scelte radicali: redistribuzione della ricchezza, investimento nell’educazione, politiche climatiche vincolanti, diritti sociali universali.

Perché la verità è questa: se non cambiamo, non sarà solo il futuro dei giovani ad essere negato. Sarà il nostro presente a collassare.

O ascoltiamo, oppure scompariamo. E stavolta per davvero.

L.F.