Roberto Vecchioni: il professore che ha cantato la vita, la fede, l’amore e il dramma della morte. Poi il conforto nella fede

Roberto Vecchioni

Roberto Vecchioni, ottantadue anni proprio in questi giorni, e la voce ancora piena di vento e malinconia, come se il tempo lo avesse soltanto sfiorato. Roberto Vecchioni non è mai del tutto invecchiato, è rimasto lì, a metà tra la lavagna del professore e il cielo largo del poeta. Un cantastorie col cuore in gola, che ha sempre cantato come si scrive una lettera, come si piange di notte o si sogna da ragazzi.

Ma la vita di Roberto Vecchioni non è stata semplice, tutt’altro. Dietro la luce delle sue parole, si nasconde una storia fatta di dolori profondi e battaglie silenziose. Chi conosce davvero Vecchioni sa che ogni sua canzone nasce da un vissuto intenso, talvolta straziante. 

Nel suo percorso c’è la sofferenza per la perdita del figlio Arrigo, un dolore che non si supera, ma che si trasforma in canto, in memoria viva. C’è il coraggio di raccontarsi senza filtri, anche quando avrebbe potuto rifugiarsi nel silenzio. C’è la fragilità dell’uomo che si fa forza per chi lo ascolta, che condivide il peso delle sue ombre e ci rende un po’ più umani, meno soli. E c’è anche un altro dramma: la grave malattia di un altro figlio.

In quegli anni oscuri, Vecchioni ha cercato riparo nell’alcol. Lo ha ammesso lui stesso, con lucidità e senza compiacimento.

“Bevevo troppo. Non per scappare, ma per stordire. Per non pensare. Per non dover reggere il dolore lucidamente ogni singolo giorno.”

Una caduta che non ha nascosto, perché parte integrante della sua umanità. Non c’è eroismo nella sofferenza, solo fragilità, e il coraggio – quando arriva – sta nel riconoscerla.

Nella sua lunga storia personale c’è l’amore per la moglie Daria, presenza silenziosa e saldo punto di riferimento. E c’è il rapporto con i figli, che nelle sue parole sono stati guida e ferita, slancio e radice. E poi la vecchiaia che bussa, la memoria che ogni tanto vacilla: Vecchioni non ha mai nascosto nulla. Anzi, lo ha scritto, cantato, gridato.

Nel suo celebre pezzo “Sogna, ragazzo sogna”, scritto la sera prima del suo ultimo giorno da professore in un liceo classico di Milano, ci ha insegnato che “sognare è il solo modo per credere al futuro”, e oggi quella frase vibra più forte che mai. In un mondo che si spegne sotto il peso delle guerre, delle solitudini, delle parole urlate e mai ascoltate, Vecchioni è ancora un faro per chi crede nella bellezza fragile delle utopie.

Con “Chiamalo ancora amore”, pezzo vincitore del Festival di Sanremo 2011, ci ha ricordato che “l’amore ha vinto, vince, vincerà”. Un eco virgiliano che il professore Vecchioni ama tanto. 

Ma è dal dolore che nasce il suo cammino interiore. La fede, per Vecchioni, non è mai stata un’adesione formale. È stata – e resta – un dubbio continuo, un dialogo aperto.

Ha cercato Dio nei Vangeli, nei discorsi con Ravasi, nelle lacrime nascoste. E in almeno dodici sue canzoni, che definisce “preghiere imperfette”.

“Non ho mai avuto risposte chiare,” ha detto, “ma ho trovato luce nei momenti più bui. E non è poco.”

E ora, all’età in cui molti si ritirano nel silenzio, lui resta lì a gridarlo ancora. Perché non è mai stato un uomo che si è arreso, ma uno che ha camminato con le ferite in vista e la penna tra le dita. 

di Ernesto Mastroianni