C’è una luna che torna ogni anno: è quella che si affaccia sulle nostre notti d’Agosto, quando i pensieri si fanno leggeri, la malinconia prende forma tra le onde del mare e le luci di una balera sul lungomare. È la luna di Fred Buscaglione, quella di “Guarda che luna”, che da oltre sessant’anni resta sospesa nei cieli della memoria italiana, col suo bagliore di malinconia e ironia. Un tormentone estivo, sì, ma con le rughe di un sentimento vero, di quelli che non passano, come le canzoni che resistono al tempo, perché raccontano le stagioni della vita.
Nell’estate degli anni Cinquanta, “Guarda che luna” non era solo un pezzo da classifica: era un’atmosfera, un modo di vivere le serate, un richiamo irresistibile per chi sapeva che la felicità poteva durare lo spazio di un lento ballato sulla sabbia, tra le baracche di legno e il rumore lontano di una radio. Fred Buscaglione, con quella voce da attore navigato e quella sua aria da duro col cuore tenero, aveva capito qualcosa che pochi avevano ancora intuito: la leggerezza può essere tragica, e la malinconia può avere il volto beffardo di un uomo innamorato che si fa coraggio con un bicchiere in mano.
Fred Buscaglione non era un cantante qualunque. Nato dal jazz, educato tra i locali americani durante la seconda guerra mondiale, portava nella sua musica un’energia nuova, un’irriverenza che gli italiani del dopoguerra desideravano come l’aria. L’Italia degli anni Cinquanta stava ricostruendo se stessa: le macerie non erano solo nelle città, ma anche nei cuori. E la canzone leggera, da “Che bambola!” a “Eri piccola così”, divenne il linguaggio collettivo di un Paese che voleva ridere, sognare, e soprattutto innamorarsi.
Erano gli anni di “Papaveri e papere” di Nilla Pizzi, oppure dello stornellino sanremese “aprite le finestre al primo sole, è primavera, è primavera, lasciate entrare un poco d’aria pura…” di Franca Raimondi.
“Guarda che luna” esce nel 1959. Dietro l’apparente semplicità di un testo che gioca con la luna come simbolo eterno dell’amore e della solitudine, c’è la consapevolezza di chi ha vissuto troppe notti sveglio, aspettando una donna che non torna, o forse aspettando solo che l’estate duri un po’ di più.
In quegli anni, le estati italiane erano fatte di treni pieni di valigie di cartone, di ombrelloni colorati e di famiglie che si concedevano le prime vacanze al mare, spesso tutte insieme, strette in pensioni rumorose. I giovani, ancora senza troppe distrazioni, portavano la chitarra in spiaggia e accennavano quei motivi che, negli anni, sarebbero diventati colonna sonora di una generazione. Le note di “Guarda che luna”, con quel suo ritmo cadenzato e quelle pause che sembrano sospiri, erano perfette per le sere d’estate, quando la sabbia si raffreddava e i corpi si avvicinavano timidi gli uni con gli altri, cercando una scusa per restare vicini un po’ di più.
Erano estati ingenue, ma non per questo meno intense. I primi baci dati di nascosto dietro le cabine, le corse in motorino. Gli amori nascevano in fretta, si consumavano al ritmo dei giorni e spesso finivano con le vacanze. Ma restavano nella memoria, incancellabili. “Guarda che luna”, in fondo, è proprio questo: la fotografia di un amore che non si realizza, ma che resta sospeso come un sogno.
Negli anni Cinquanta i tormentoni estivi non erano ancora prodotti di marketing, ma nascevano spontanei, crescevano tra le mani della gente. Al fianco di Buscaglione, altri grandi firmavano le estati italiane: Domenico Modugno con “Nel blu dipinto di blu” (1958) portava in volo il sogno di un Paese che voleva staccarsi dal passato, e Celentano, nel 1959, già faceva ballare con “Il tuo bacio è come un rock”. Ma “Guarda che luna” restava diversa: non era un inno all’ottimismo, ma un brindisi malinconico alla vita. Non faceva ballare, faceva sognare.
Oggi quella luna è ancora lì. Le spiagge sono cambiate, i tormentoni si consumano in streaming e spesso si dimenticano il mese dopo. Ma “Guarda che luna” no. Ogni tanto qualcuno la suona ancora sulla riva, tra amici, magari senza sapere bene chi fosse Fred Buscaglione, ma sentendo che c’è qualcosa in quella canzone che appartiene a tutti noi. È il sapore dolceamaro delle estati passate, degli amori che finiscono prima dell’autunno, delle promesse che si fanno soltanto per sentirsi vivi.
E poi, come in un sogno che si prolunga tra le pieghe della memoria, arriva un’altra immagine, una di quelle che solo l’estate può regalare: “Una rotonda sul mare” un pianoforte, le luci soffuse di una balera dimenticata. Anche quella, uscita nel 1964, è una canzone che racconta il tempo che sfugge, gli amori che si affacciano come onde e si ritirano, lasciando solo la scia. Un tormentone estivo degli anni ’60 con un significato profondissimo. “Una rotonda sul mare” e “Guarda che luna”, sono due canzoni che si parlano; due nostalgie che si intrecciano in un unico abbraccio.
Così passano le estati. Così passano gli amori. Ma la luna resta. E resta anche la musica di Fred Buscaglione, a ricordarci che ogni stagione finisce, ma ci sono notti che non svaniscono mai. Basta un accordo, una voce che ritorna dalla radio, e noi siamo di nuovo lì: sotto quella luna, su quella rotonda, con il cuore in bilico tra la gioia e la malinconia.
Fred ci ha lasciato in fretta, proprio come le sue canzoni, che si ascoltano sorridendo e finiscono troppo presto. Ma ci ha lasciato anche questa luna, che torna ogni anno, a ricordarci che l’estate è un amore breve, ma vero. E che certe canzoni, come certi amori, durano per sempre.
“Guarda che luna, guarda che mare…
[…] Resta soltanto
Tutto il rimpianto
Perché ho peccato nel desiderarti tanto…”, canta Fred, e noi sentiamo in quelle parole la nostalgia per qualcosa che forse non c’è mai stato davvero, ma che è diventato parte di noi.
Ernesto Mastroianni