1. Il tessuto produttivo italiano: piccolo, frammentato e sotto pressione
Il cuore dell’economia italiana è costituito da piccole e medie imprese (PMI): secondo i dati Istat 2024, il 95% delle aziende italiane ha meno di 10 dipendenti. Questo micro-capitalismo diffuso, se da un lato rappresenta una risorsa in termini di resilienza e radicamento territoriale, dall’altro limita fortemente:
- gli investimenti in innovazione e digitalizzazione;
- la capacità di internazionalizzarsi;
- l’accesso al credito bancario e ai capitali privati.
La Germania, in confronto, ha favorito negli ultimi vent’anni una forte aggregazione tra imprese, reti di filiera, cooperazione con i Länder e partnership tra imprese e università. In Italia, le “reti d’impresa” sono ancora un fenomeno marginale e poco sostenuto dallo Stato.
2. Una produttività stagnante
Secondo Eurostat, la produttività del lavoro in Italia (PIL per ora lavorata) è cresciuta appena del 4,2% in 20 anni, contro il 20,8% della media UE e il 30,7% della Germania. Questo significa che il sistema produttivo italiano è rimasto pressoché fermo, mentre gli altri Paesi hanno innovato, investito, digitalizzato.
Le ragioni sono molteplici:
- scarsità di ricerca e sviluppo (R&S): solo lo 0,6% del PIL privato, contro l’1,3% tedesco;
- bassa alfabetizzazione digitale della forza lavoro;
- un sistema burocratico e normativo farraginoso che frena le iniziative.
3. Salari reali in caduta
Il nodo più drammatico resta quello dei salari. L’Italia è, insieme alla Grecia, l’unico Paese dell’Eurozona dove i salari reali sono scesi rispetto al 1990. Secondo l’OCSE (report 2024), il potere d’acquisto di un lavoratore medio italiano è calato del 2,9% nell’ultimo decennio.
Confronto tra retribuzioni medie nette annuali (dati OCSE 2023):
Paese | Salario medio netto annuo |
Germania | Euro 31.500 |
Francia | Euro 29.800 |
Spagna | Euro 24.400 |
Italia | Euro 23.000 |
Polonia | Euro 18.900 |
I salari bassi hanno conseguenze gravi:
- spingono i giovani verso l’estero;
- alimentano il precariato e l’instabilità;
- riducono i consumi interni;
- rendono poco attrattivo l’impiego regolare rispetto a forme di lavoro nero o grigio.
4. Una contrattazione da riformare
Il sistema italiano si basa su contratti collettivi nazionali spesso poco aggiornati e privi di reale efficacia locale. Il Cnel ne ha censiti oltre 900, di cui solo una parte firmati da sigle rappresentative. La contrattazione di secondo livello è poco diffusa, specie nelle PMI, e non premia la produttività o le competenze.
In paesi come la Danimarca o l’Olanda, il sistema contrattuale è più snello e flessibile, con forti incentivi al dialogo sociale locale, alla formazione continua, e al welfare contrattuale (sanità integrativa, previdenza, conciliazione famiglia-lavoro).
5. Un cantiere aperto (ma fermo): le riforme mancate
Il PNRR prevedeva una riforma del mercato del lavoro fondata su:
- rafforzamento delle politiche attive;
- rilancio dei centri per l’impiego;
- introduzione del “Sistema duale” scuola-lavoro;
- maggiore raccordo tra offerta e domanda.
A oggi, molti di questi interventi sono ancora in fase sperimentale o ostacolati da competenze frammentate tra Stato e Regioni, carenza di personale nei CPI, e una gestione a macchia di leopardo sul territorio.
Con il contributo di Bruno Mirante e Luca Falbo