L’11 giugno 1984, nel cuore di una campagna elettorale segnata dalla fatica e dalla passione, moriva Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano. La sua ultima immagine, spezzata da un ictus sul palco di Padova, resta impressa nella memoria collettiva non solo come il simbolo tragico di un impegno politico portato fino all’estremo, ma come il lascito di un uomo che cercò, con ostinata onestà, di cambiare la sinistra italiana e, con essa, la politica tutta.
Berlinguer fu una figura complessa, spesso solitaria, persino scomoda. Non era amato da tutti, neppure all’interno del suo stesso partito. Non era un uomo di apparato, non sapeva essere manovratore. Il suo linguaggio sobrio e riflessivo mal si prestava alla semplificazione ideologica. Eppure, o forse proprio per questo, incarnò come pochi altri la tensione morale della politica, l’idea che rappresentare i lavoratori, i deboli, le masse popolari significasse prima di tutto avere una condotta personale irreprensibile.
Celebre, in tal senso, il suo discorso sulla questione morale, che nel 1981 denunciava la degenerazione partitocratica, la corruzione, la distanza crescente tra il potere e i cittadini. Un j’accuse che non risparmiava nessuno e che anticipava di anni Tangentopoli e il crollo della Prima Repubblica.

Berlinguer fu il leader che osò lo “strappo” con Mosca, nel 1981, dichiarando chiusa la fase storica aperta dalla Rivoluzione d’Ottobre: «La spinta propulsiva nata dalla rivoluzione socialista d’ottobre è venuta esaurendosi». Fu un atto di coraggio, isolato e rischioso, che pagò caro in termini di rapporti internazionali, ma che segnò l’inizio del tentativo di costruire il socialismo “italiano”, democratico, europeo, autonomo. Un sogno difficile, che si sarebbe infranto, ma che fece del PCI berlingueriano una singolare anomalia nel panorama internazionale.
E fu anche il leader che, dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, sostenne la linea del compromesso storico, cioè un avvicinamento tra comunisti e democristiani in nome della salvezza nazionale. Un’idea audace, che rompeva vecchie logiche di contrapposizione frontale. «Io non dico che la Dc è buona o cattiva. La sua storia è molto varia. Sta a noi avere una politica che le impedisca di andare verso la via reazionaria, e faccia invece emergere la sua parte migliore», dichiarò l’8 novembre 1973. In quelle parole si coglieva la visione di un’alleanza tra forze popolari per governare democraticamente l’Italia, al di là degli steccati ideologici.

Berlinguer rimase sempre fedele a se stesso. Non cedette mai alla demagogia, non si fece mai travolgere dall’opportunismo, non cercò scorciatoie. Parlava alla coscienza del Paese più che alla sua pancia. E forse per questo, alla sua morte, quasi 1,5 milioni di persone scesero in piazza per salutarlo, in un corteo funebre che fu il più imponente della storia repubblicana.
Oggi, a quarantun anni dalla sua scomparsa, Berlinguer resta un riferimento etico prima ancora che politico. Non tanto per le sue ricette, molte delle quali appartengono ormai a un’altra epoca, quanto per il suo modo di intendere la politica come servizio, rigore, responsabilità. In un tempo in cui la fiducia nei partiti è ai minimi storici e la politica sembra spesso priva di visione, il suo esempio, quello di un uomo “chiuso”, solitario, ma profondamente integro – continua a interrogarci. Con il silenzio eloquente dei giusti.