“Le parole sono vive, entrano nel corpo, bucano la pancia: possono essere pietre o bolle di sapone, foglie miracolose. Possono fare innamorare o ferire. Le parole non sono solo mezzi per comunicare, ma sono corpo, carne, vita, desiderio. Noi siamo fatti di parole, viviamo e respiriamo nelle parole.”
Così scrive Massimo Recalcati, psicoanalista e intellettuale tra i più influenti dell’Italia contemporanea. Una riflessione che, letta oggi, suona quasi come un monito: perché proprio ora, nell’epoca della connessione permanente, delle conversazioni senza volto e delle frasi lanciate come proiettili nel vuoto digitale, le parole sembrano aver perso il loro peso, il loro corpo, la loro anima.
Siamo immersi in un flusso ininterrotto di linguaggio, eppure raramente ci fermiamo a riflettere sul valore delle parole che usiamo. La società digitale ha democratizzato l’accesso alla parola pubblica, ma ne ha anche eroso il significato. I social network sono diventati arene in cui si combattono guerre verbali quotidiane, spesso senza regole e senza responsabilità. “Le parole possono essere come piccole dosi di arsenico: vengono inghiottite senza pensarci, sembrano non avere effetto, e dopo un po’ arriva il veleno”, scriveva Victor Klemperer, filologo tedesco perseguitato dal nazismo, che osservò da vicino come il linguaggio potesse trasformarsi in strumento di disumanizzazione.
Oggi assistiamo a una simile mutazione, più subdola ma non meno pericolosa. Il linguaggio pubblico si è fatto spesso aggressivo, violento, svuotato di verità. Le parole vengono usate come armi: per offendere, per umiliare, per manipolare. Si grida, si urla, si insulta, nella convinzione che più una frase colpisce, più vale. Ma colpire non significa comunicare. E non tutto ciò che si può dire va detto. Come scriveva Italo Calvino, “prendere la parola non è un gesto innocente”.
In questo clima avvelenato, la stampa ha una responsabilità enorme. Il giornalismo dovrebbe essere il luogo della parola sorvegliata, onesta, pesata. Eppure, anche l’informazione talvolta cede al sensazionalismo, alla spettacolarizzazione del linguaggio, alla polarizzazione verbale che genera clic ma impoverisce il pensiero. “Parlare è un atto politico”, ricordava Pier Paolo Pasolini. Chi scrive, chi parla in pubblico, chi comunica a molti, ha il dovere di dare forma alle parole con consapevolezza, perché da esse dipende la qualità del dibattito democratico.
Ma la responsabilità non è solo dei professionisti della comunicazione. È un compito che riguarda tutti. Anche le conversazioni quotidiane, i post sui social, le parole scambiate in famiglia o in ufficio. È necessario riscoprire il gusto del parlare pulito, dell’onestà nel dire. Riabituarsi al silenzio come spazio di ascolto, e non solo come vuoto da riempire.
C’è bisogno di un’educazione nuova al linguaggio. Le scuole dovrebbero insegnare non solo a scrivere correttamente, ma a scegliere le parole giuste. Le istituzioni dovrebbero dare l’esempio con un linguaggio rispettoso. I social network dovrebbero assumersi la responsabilità di moderare i contenuti senza farsi scudo della neutralità.
Le parole sono atti. Hanno conseguenze. Possono far nascere l’amore o l’odio, possono accendere una rivoluzione o coprire un’ingiustizia. Possono curare o distruggere. “Una parola uscita dal cuore entra in un altro cuore”, recita un antico proverbio persiano. Ma se una parola esce dalla bocca senza passare dalla coscienza, può fare molto male.
Ritrovare il senso delle parole significa ritrovare anche il senso del nostro essere umani. Perché, come scriveva il filosofo Ludwig Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. E se le parole muoiono, muore anche la possibilità di capirsi, di amarsi, di costruire insieme.