Non è solo una polemica ai David di Donatello. È il sintomo di un progetto più profondo e più pericoloso: trasformare la cultura in una branca del potere, un ufficio con gerarchia, fedeltà, e soprattutto selezione all’ingresso. Non conta il merito, non contano le idee. Conta da che parte stai.
In realtà ci hanno provato altri in passato, soprattutto nella convinzione che la cultura fosse appannaggio della sinistra in Italia. Ma ogni volta si andata a sbattere. Perché tentare di etichettare la cultura si finisce con svuotarla.
Ma torniamo ad oggi. Sul palco, Geppi Cucciari ironizza sull’intervento solenne del ministro della Cultura Alessandro Giuli. Elio Germano rompe gli indugi e accusa il governo di trattare la cultura come un clan: “Non interessa il bene comune, ma piazzare i propri”. Il giorno dopo, Giuli risponde con il livore tipico di chi detiene il potere: liquida Germano come un “cianciatore solitario”, se la prende con “i comici della sinistra” e rivendica di aver restituito il ministero “al popolo della cultura”. Ma quale popolo? Quello che applaude e si allinea?
La cultura, nel disegno del governo, è un campo di battaglia ideologico, non un luogo di pluralismo. Si parla di “liberarla” da un presunto dominio progressista, ma nei fatti la si riduce a un apparato di propaganda: si nominano amici, si isolano voci critiche, si promuove un “immaginario nazionale” fatto di miti, sacro, identità e patriottismo. Ma attenzione: più che cultura, è arredamento di regime.
Giuli e i suoi parlano di Gramsci, ma ne fanno un uso da manuale di istruzioni. La loro “egemonia” è svuotata di senso: non serve a elevare il dibattito, ma a sostituire una narrazione con un’altra, identica nella logica del controllo. Ecco allora che ogni forma di pensiero autonomo diventa un bersaglio. Gli artisti devono rientrare nei ranghi o essere messi alla gogna. Il teatro, il cinema, i festival, la ricerca: tutto dev’essere funzionale a un racconto unico.
Questa non è una battaglia culturale. È un tentativo di ridurre la cultura a organigramma. Chi ha la tessera giusta, entra. Gli altri fuori. E chi parla viene ridicolizzato, sminuito, umiliato. Non importa se sia un attore, un autore, un intellettuale: se non sei funzionale alla narrazione, diventi un problema.
La cultura, però, non è mai stata un ufficio del potere. È nata per disturbare, non per obbedire. E un Paese che la riduce a megafono del governo non si sta liberando da un’egemonia: si sta solo costruendo una nuova gabbia. Più stretta. Più grigia. Più pericolosa.
di F.L.