Con l’elezione di Robert Francis Prevost, agostiniano originario di Chicago, al soglio pontificio con il nome di Leone XIV, la Chiesa cattolica entra in un nuovo capitolo della sua lunga storia. È la prima volta che un Papa proviene dagli Stati Uniti d’America: un. evento storico, ma che apre interrogativi complessi sul presente e sul futuro della Chiesa universale.
Leone XIV ha una lunga esperienza missionaria in America Latina, una formazione solida, ed è stato prefetto del Dicastero per i Vescovi. È stimato da molti come un “bergogliano moderato”, sensibile alle istanze sociali e al ruolo dei margini. Eppure, il fatto che il nuovo Pontefice venga da un Paese che oggi rappresenta non solo una superpotenza economica e militare, ma anche un centro nevralgico di tensioni culturali e politiche globali, solleva più di una riflessione.
L’America di oggi è un Paese spaccato, in cui le contrapposizioni ideologiche, religiose e razziali sembrano raggiungere livelli sempre più estremi. È anche una nazione che, sotto la presidenza attuale, vive una fase controversa. L’immagine del presidente Donald Trump vestito da Papa, da lui stesso diffusa sui social, è apparsa solo pochi giorni prima dell’elezione di Leone XIV, sollevando più di un sopracciglio. Una provocazione? Un’intuizione? O il sintomo di un’ambiguità crescente nei rapporti tra potere politico, comunicazione e religione?
La coincidenza è inquietante per alcuni osservatori. Non si tratta tanto di sospettare un’influenza diretta della politica statunitense sulla Chiesa, ipotesi non sostenibile con prove, quanto di interrogarsi su ciò che un Papa americano può rappresentare nell’immaginario collettivo e nei delicati equilibri geopolitici. In un mondo in cui l’Occidente è spesso percepito come colonizzatore culturale, come verrà accolto Leone XIV nelle Chiese del Sud del mondo, in Africa o in Asia, dove la diffidenza verso “l’americanizzazione” delle istituzioni è viva?
C’è anche un’altra questione. La figura del Papa è simbolo di universalità, e non dovrebbe identificarsi con alcuna nazione. Ma possiamo davvero immaginare che il primo Pontefice statunitense venga percepito con lo stesso distacco da un fedele in Congo, in Iraq o in Venezuela? La cultura americana, con il suo stile diretto, la sua tendenza al marketing, la sua centralità nei media globali; rischia di pesare sull’immagine del papato più di quanto ci si aspetti.
D’altra parte, Leone XIV ha esordito con parole forti e inclusive, richiamando alla pace e al dialogo tra i popoli, alla giustizia e alla solidarietà. Ha salutato in spagnolo i suoi ex parrocchiani del Perù, ha mostrato un volto pastorale, quasi francescano, seppur conuna liturgia più formale rispetto al suo predecessore. Ma basterà questo a dissipare i timori?
Il rischio, forse, non è tanto nel Papa in sé, quanto nella lettura che se ne darà. In un mondo dove tutto è immediatamente politicizzato, dove ogni gesto può essere frainteso e ogni messaggio deformato, un Pontefice americano potrebbe trovarsi costantemente esposto alla tentazione di essere “usato” come simbolo, per scopi che con il Vangelo hanno ben poco a che vedere.
Certo, non si può giudicare un pontificato in due giorni. Leone XIV merita il tempo e lo spazio per mostrare la sua visione e guidare la Chiesa secondo coscienza e fede. Ma l’elezione di un Papa americano, in questo preciso momento storico, è più di un fatto religioso. È un evento che tocca il cuore stesso delle dinamiche di potere globali, e che chiede a tutti, credenti e non, uno sguardo vigile ma anche lucido e forse pure un po’ inquieto.
Perché se è vero che la Chiesa è nel mondo ma non del mondo, è altrettanto vero che il mondo, oggi, è più complicato che mai.
di Riccardo Piccolo