Quanto è libera l’università italiana? La risposta di Tomaso Montanari

Università La Sapienza di Roma, ingresso Piazzale Aldo Moro

di Alessandro Gaudio

L’università italiana non è libera e giusta e non forma sufficientemente il pensiero critico: è da questo assunto che prende le mosse Libera università, l’ultimo libro di Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena. Il volumetto, appena uscito nelle Vele di Einaudi, offre tantissimi spunti di riflessione che possono essere ricondotti a tre concetti chiave, tanto attuali quanto oggi, in seno all’Accademia, per lo più disattesi: “impegno”, “funzione intellettuale”, “autonomia”.

Perché l’auspicio incluso nel titolo scelto da Montanari possa tradursi in realtà bisogna fare i conti con un controllo politico sempre più marcato negli atenei, con i tagli ai finanziamenti, con le fabbriche di lauree “for profit” ma anche, ed è questo il versante che oggi, da docente universitario precario preferisco, con una severa autocritica che sovverta una troppo diffusa acquiescenza interna al mondo accademico e, partendo dal riconoscimento dell’autonomia e della propria funzione intellettuale, si concretizzi, poi, nella capacità militante di esporsi in prima persona per contribuire a cambiare il sistema.

Autonomia che sia, dunque, intesa, continua Montanari, come libertà dell’individuo dall’ingerenza o tutela altrui, in modo che non comporti l’introiezione di un modello aziendale di università, quello che prevede rettori onnipotenti come amministratori delegati, senati accademici depotenziati rispetto ai consigli di amministrazione, dipartimenti meno indipendenti e studenti considerati come clienti. È la strada che, secondo il rettore dell’ateneo senese, passa dalla riduzione e, possibilmente, dalla scomparsa della precarietà lavorativa in quanto, come recita il codice etico promulgato da egli stesso, è “condizione incompatibile con la dignità della vita personale e con la libertà della ricerca e della didattica”. Il sistema che i professori universitari dovrebbero avversare produce un professionista supplice, “costretto a supplicare per avere un posto non precario” e quindi ben lontano dall’essere libero.

Ma questo non è il solo dovere dimenticato dai professori di oggi: ad esempio, rammentano che il loro dovere, come auspicava anche Umberto Eco, non si esaurisce nelle aule? Ricordano che quelle stesse aule vanno intese come luoghi di possibilità nei quali chiedere a loro stessi e ai loro studenti un’apertura di mente che consenta di affrontare la realtà? Sono ancora al corrente del fatto che non c’è didattica senza ricerca e non c’è ricerca senza didattica? Dopo aver considerato e fronteggiato i pericoli che provengono dall’alto, solo quando e se sarà possibile rispondere affermativamente a tutte queste domande, si potrà dire che l’università è davvero libera.