La sera dell’inaugurazione, nella penombra gotica della Chiesa di Santa Maria del Carmine di Pavia, il pubblico si è raccolto in un silenzio quasi rituale. Le volte altissime, le navate scolpite dal tempo e la luce morbida delle candele hanno accolto la prima iconografia al mondo dedicata a Papa Leone XIV, firmata dal Maestro Francesco Guadagnuolo.
Un successo immediato: visitatori, studiosi, religiosi e curiosi hanno riempito la chiesa per scoprire un ciclo di opere che non si limita a ritrarre un Pontefice, ma tenta di interpretare un’epoca. La Diocesi di Pavia, su iniziativa di Mons. Daniele Baldi, Vicario Generale, resterà aperta fino al 12 febbraio 2026, accompagnando la conclusione del Giubileo della Speranza di Pavia. È un augurio di pace, fraternità e rinnovata consapevolezza per il nuovo anno, ma anche un invito a interrogarsi sul destino dell’immagine nell’era digitale. Un’occasione per scoprire non solo un nuovo linguaggio iconografico, ma anche un modo diverso di guardare il nostro tempo.
Abbiamo incontrato Guadagnuolo tra le sue opere, mentre la luce del Carmine si rifletteva sulle superfici delle opere pittoriche – collage che compongono il ciclo Leone XIV e l’Alba Digitale.

L’intervista al Maestro Guadaguolo
Maestro Guadagnuolo, la mostra è stata inaugurata con grande partecipazione. Che cosa ha significato per lei presentare qui, al Carmine, la prima iconografia di Papa Leone XIV?
«È stato emozionante. Il Carmine è un luogo che custodisce memoria e spiritualità, ma anche un senso di apertura. Presentare qui la prima iconografia di Leone XIV significa collocare il nuovo Pontefice in un dialogo con la storia, ma anche con il presente. Il pubblico ha percepito questa tensione: fra tradizione e contemporaneità, tra sacro e digitale».
Le sue opere interpretano i primi otto mesi di pontificato con un linguaggio visivo molto contemporaneo. Da dove nasce questa scelta?
«Viviamo in un mondo in cui la luce che ci circonda non è più solo quella naturale o quella delle lampade: è la luce degli schermi, dei dispositivi, delle reti. Il volto umano oggi è continuamente catturato, archiviato, trasformato in dato. Ho voluto che questa condizione entrasse nel ritratto del Papa. Non per snaturarlo, ma per restituirlo al nostro tempo. La mia iconografia non cerca l’aura dorata delle icone né il dramma del barocco: cerca la vibrazione del digitale, che è la vibrazione della nostra epoca».
Il volto di Leone XIV, nelle sue opere, sembra emergere da una trama luminosa che ricorda i pixel. Eppure rimane profondamente umano. Come ha trovato questo equilibrio?
«Ho cercato un volto che non fosse distante. Leone XIV è un uomo che parla con semplicità, che invita più che imporsi. La luce digitale che lo attraversa non vuole trasformarlo in un’icona replicabile, ma rivelarne la complessità. È come se la luce venisse da dentro, non da fuori. In un mondo frammentato, il volto del Papa diventa un punto fermo, un orientamento».
Il digitale, nelle sue opere, non appare come una minaccia. Anzi, sembra diventare un linguaggio spirituale.
«Il digitale è il nostro ambiente. Non possiamo più considerarlo un semplice strumento. Nelle mie opere diventa una trama che collega, che unisce. Il volto del Papa immerso in questa luce non è un volto smarrito: è un volto che dialoga con il mondo contemporaneo. La tecnologia può oscurare, certo, ma può anche illuminare. Dipende da come la attraversiamo».
In occasione della chiusura del Giubileo della Speranza a Pavia, come dialogano le opere del nuovo Papa con il tema della mostra a lui dedicata?
«La speranza è uno sguardo. È la capacità di vedere oltre la superficie. In un’epoca in cui il volto rischia di essere ridotto a dato biometrico, io ho voluto restituirgli profondità. Il volto di Leone XIV diventa simbolo di un’umanità che cerca orientamento, che non rinuncia alla relazione. Se c’è un messaggio di speranza, è proprio questo: il volto continua a parlare, anche nell’era digitale».
Che cosa desidera che il visitatore porti con sé dopo aver visto la mostra?
«Vorrei che uscisse con uno sguardo più attento. Che si accorgesse che, dietro ogni immagine, c’è una presenza. Il volto del Papa è un pretesto per parlare del volto di tutti noi. Se il visitatore sentirà di aver incontrato non solo un’immagine, ma un’umanità, allora la mostra avrà compiuto il suo percorso».







