Lo spettro di Epstein incombe su Trump: alla vigilia della pubblicazione dei file compaiono nuove foto, sms e dettagli che agitano la politica americana

Donald Trump

Donald Trump guarda con preoccupazione il calendario. Mancano poche ore alla pubblicazione dei documenti legati a Jeffrey Epstein, prevista per venerdì, e la questione non è più soltanto giudiziaria o mediatica: è politica. Perché mentre l’America attende di capire cosa emergerà realmente dai cosiddetti “Epstein files”, i Democratici in Congresso hanno deciso di alzare ulteriormente la temperatura, diffondendo nuove foto e alcuni imbarazzanti scambi di messaggi che riaccendono un caso mai davvero chiuso.

La divulgazione dei file non è un gesto volontario dell’amministrazione: è un obbligo imposto da una legge approvata a larghissima maggioranza dal Congresso, che lo stesso Trump – secondo diverse ricostruzioni – sarebbe stato costretto a firmare per non subire un danno politico ancora maggiore. La scadenza è fissata a trenta giorni dalla promulgazione del provvedimento. Con una serie di limiti, certo: il Dipartimento della Giustizia può oscurare o ritardare le parti che metterebbero a rischio minori, vittime, sicurezza nazionale o indagini ancora in corso. Ma il principio resta: quei documenti devono, almeno in larga parte, vedere la luce.

In questo quadro già teso, la Commissione di Vigilanza della Camera, a guida democratica, ha pubblicato altre cinque fotografie provenienti dalla proprietà di Epstein. Non accompagnate da spiegazioni, ma destinate comunque a fare rumore. Tra le immagini compaiono un passaporto ucraino di una donna, uno scatto che ritrae Noam Chomsky su un aereo con Epstein, una foto di Bill Gates accanto a una donna il cui volto è stato oscurato. E poi il dettaglio più simbolico e disturbante: il tatuaggio sul piede di una ragazza con una citazione da Lolita, il romanzo di Nabokov che riassume in sé l’intero immaginario del caso Epstein.

Accanto alle foto, lo screenshot di una conversazione via sms che sembra evocare l’organizzazione di “invii di ragazze”, con riferimenti all’età (“18 anni”), a Paesi di provenienza, all’area Schengen, a compensi richiesti. Molti elementi sono censurati, i nomi non compaiono, il contesto non viene spiegato. Non è chiaro chi scriva, a chi, né quando. Ma il solo fatto che simili materiali vengano diffusi alla vigilia della pubblicazione dei file contribuisce a creare una sensazione precisa: qualcosa di grosso potrebbe scuotere ancora una volta la scena pubblica americana.

Sul piano politico, il clima è già diventato velenoso. Nei giorni scorsi erano state pubblicate altre immagini – alcune giudicate imbarazzanti per lo stesso Trump – provenienti dalla medesima mole di materiali fornita dalla proprietà di Epstein alla commissione. La Casa Bianca, in più occasioni, ha mantenuto una linea difensiva: riconoscere i contatti del passato tra Trump ed Epstein, ma negare qualsiasi atto illegale. La Chief of Staff Susan Wiles, in un’intervista a Vanity Fair, ha parlato di “amicizia di gioventù” tra due uomini “ricchi e scapoli”, evitando però di entrare nei dettagli dei documenti che potrebbero emergere.

Intanto nei corridoi repubblicani è già circolato un memo con i “talking points” per neutralizzare quella che viene definita “narrazione tossica” dei democratici. Il Partito del presidente sa che la sola associazione tra la Casa Bianca e il nome di Epstein rischia di essere devastante, indipendentemente dai contenuti concreti che verranno resi pubblici. Perché in politica, spesso, non conta solo la verità giudiziaria, ma l’impatto simbolico di un’ombra che ritorna.

Sul fronte istituzionale, resta invece il grande punto interrogativo del Dipartimento della Giustizia. Per ora silenzio assoluto: nessuna anticipazione, nessun commento sulle modalità della pubblicazione e sulle eventuali parti che potrebbero essere escluse o oscurate. Alcune ricostruzioni collegano persino le annunciate dimissioni del vice capo dell’FBI Don Bongino alle tensioni interne legate alla gestione del caso, elemento che contribuisce a dare l’idea di una macchina dello Stato che si muove con estrema cautela.

A rendere il quadro ancora più delicato c’è poi l’indagine che l’Attorney General Pam Bondi avrebbe aperto – secondo fonti politiche – su richiesta dello stesso Trump, per approfondire i rapporti tra Epstein, Bill Clinton e altri esponenti democratici. Anche questo tassello, inevitabilmente, alimenta l’interpretazione politica dello scontro: da una parte chi accusa il presidente di voler orientare l’attenzione altrove; dall’altra chi sostiene che la pubblicazione integrale dei file potrebbe non essere così conveniente per il campo avversario.

E poi c’è la dimensione etica, quella che riemerge ogni volta che si pronuncia il nome di Epstein: lo scandalo di un sistema di potere costruito su ricchezza, complicità, silenzi e sfruttamento. Le 95mila immagini consegnate alla commissione – spiegano i democratici – sono arrivate senza contesto, senza narrazione, senza interpretazione. Loro hanno scelto di diffonderne alcune, oscurando i dettagli sensibili. Ma già così bastano per ricordare che dietro le strategie politiche restano storie di persone, ferite, violenze, verità ancora da chiarire.

Ora tutto dipende da cosa verrà effettivamente pubblicato. Quanto sarà esteso il materiale disponibile al pubblico. Quanto sarà pesante la mano delle omissioni per tutelare minori e persone vulnerabili. E soprattutto se dai documenti emergeranno elementi concreti, verificabili, in grado di cambiare davvero il quadro politico e giudiziario o se, al contrario, resterà soprattutto il rumore, l’ombra, la suggestione.

Di certo, nelle prossime ore Washington tratterrà il fiato. Perché i file di Epstein non appartengono solo al passato: rischiano di incidere sul presente e, forse, anche sulla campagna politica del futuro.