Oggi non è solo una tappa processuale: è un passaggio simbolico di enorme peso per Chiara Ferragni e per tutto quello che la sua figura rappresenta nel sistema mediatico italiano. Nel tribunale meneghino, a porte chiuse ma sotto i riflettori dell’opinione pubblica, si celebra l’udienza dedicata all’arringa della difesa. Sul tavolo c’è un capo d’imputazione fondamentale – truffa aggravata – e una richiesta della Procura che pesa come un macigno: un anno e otto mesi di reclusione, già ridotti dal rito abbreviato.
Ferragni in questi mesi ha ribadito una posizione netta: nessuna volontà di ingannare i consumatori, nessuna operazione costruita per lucrare sulla beneficenza. “Buona fede”, è la parola chiave del fronte difensivo. Sarà compito degli avvocati smontare la narrazione della Procura e dimostrare che quelle iniziative – dal Pandoro Balocco Pink Christmas alle uova Dolci Preziosi – erano sì operazioni commerciali, ma con una componente solidale reale, comunicata forse in modo imperfetto, non certo costruita per confondere.
Di tutt’altro segno l’impianto accusatorio. I pm sostengono che tra 2021 e 2022 milioni di consumatori siano stati indotti a credere che l’acquisto diretto dei prodotti fosse legato in maniera immediata e proporzionale alla beneficenza. Secondo la Guardia di Finanza, invece, né il prezzo – raddoppiato rispetto al prodotto standard – né il numero delle vendite avrebbero determinato l’entità delle donazioni. Al centro del processo, quindi, non c’è solo una questione economica, ma una questione di fiducia: cosa è stato fatto capire al pubblico? E quanto di ciò corrispondeva esattamente alla realtà?
Un ulteriore punto sensibile è quello delle mail interne citate dalla Procura. Nelle carte si legge di indicazioni che avrebbero suggerito di evitare risposte troppo precise a chi chiedeva quanto del prezzo finisse effettivamente in beneficenza. Per l’accusa, questo contribuirebbe a definire un modello comunicativo “fuorviante”, capace di generare presunti profitti indebiti stimati in circa 2,2 milioni di euro. Per la difesa, invece, quelle comunicazioni sarebbero inserite in un contesto molto più complesso, non assimilabile automaticamente a un progetto intenzionale di inganno.
Non meno importante il capitolo consumatori. Il giudice ha respinto la richiesta della difesa di escludere la Casa del Consumatore come parte civile: l’associazione è stata riconosciuta legittimata a chiedere un risarcimento. Un passaggio che aggiunge peso al procedimento, perché certifica che il tema non riguarda solo la reputazione di Ferragni, ma anche un presunto danno collettivo a chi ha acquistato quei prodotti convinto di contribuire direttamente a una causa benefica.
Intanto resta sullo sfondo l’accordo che aveva portato Codacons a uscire dal processo. Una soluzione che aveva fatto pensare a un alleggerimento del clima. In realtà l’attenzione è rimasta altissima, perché la posta in gioco è culturale, oltre che giudiziaria: dove passa la linea tra marketing emozionale e messaggio ingannevole? E quanto il diritto penale deve intervenire in un mondo – quello dell’influencer economy – in cui comunicazione, percezione e business si intrecciano?
Lo scenario temporale è delineato: dopo la giornata di oggi, la strada porterà verso la sentenza, attesa – secondo le ricostruzioni – per gennaio 2026. Nel frattempo Ferragni ha già donato 3,4 milioni di euro, ma per la Procura questo non incide sulla valutazione del reato: la responsabilità penale, spiegano, si misura sul passato, non sulle iniziative riparatorie successive.
Resta una certezza: questo processo non riguarda solo Chiara Ferragni. Riguarda un modello di comunicazione, un’idea di fiducia tra pubblico e brand personali, il rapporto tra beneficenza e mercato. E oggi, per la prima volta, non è un algoritmo, non è un trend social, non è un comunicato stampa a decidere. È un giudice. E questo, nel rumore del web, è un fatto enorme.







