Nel mare di documenti desecretati legati al caso Jeffrey Epstein, il finanziere condannato per pedofilia e morto in circostanze mai del tutto chiarite, spunta un fascicolo che non poteva passare inosservato. Porta la sigla Efta00020518 ed è datato 27 ottobre 2020. Si tratta di un documento dell’FBI che riporta accuse di una gravità assoluta: una denuncia anonima secondo la quale Donald J. Trump avrebbe violentato una ragazza insieme a Epstein negli anni Novanta. È un’accusa che riapre ombre antiche, rialimenta sospetti mai del tutto sopiti e accende un dibattito inevitabile sul rapporto tra potere, scandali e opinione pubblica.
Il contesto è quello di un’operazione di trasparenza annunciata dal Dipartimento di Giustizia, che ha reso pubblici numerosi materiali raccolti nel corso degli anni attorno al cosiddetto “caso Epstein”. Materiali che, come sottolineato subito dallo stesso Dipartimento, contengono anche «affermazioni sensazionalistiche, false e infondate», molte delle quali prive di elementi sufficienti a essere considerate credibili. Eppure, nel mare di carte, note e testimonianze, alcune ricostruzioni restano difficili da ignorare e contribuiscono a creare imbarazzo istituzionale.
Il fascicolo in questione, riportato anche dal Time, contiene la denuncia anonima di una persona che afferma di essere stata violentata da Trump insieme a Epstein. I nomi, come sempre in questi casi, sono stati oscurati. Ma a rendere ancora più inquietante il quadro è il riferimento a un racconto parallelo: quello di un autista di limousine che, negli anni Novanta, avrebbe assistito indirettamente a una telefonata “molto preoccupante”. Secondo quanto riportato nel documento, mentre accompagnava Trump verso l’aeroporto nel 1995, l’allora imprenditore avrebbe ripetuto più volte il nome «Jeffrey» facendo riferimento ad «abusi su una ragazza».
Nella stessa documentazione si legge inoltre che una persona anonima affermava di essere stata «portata in un hotel o in un edificio di lusso» da «una ragazza con un nome buffo», circostanza che l’FBI registra senza però poterle attribuire un riscontro definitivo. È una narrazione frammentaria, fatta di tasselli, memorie, dichiarazioni e testimonianze non sempre verificabili, che riapre pagine scomode di un passato già segnato da scandali di portata mondiale. Accuse che non provano reati ma che suffragano la domanda fondamentale: perché il governo americano ha così a lungo resistito alla pubblicazione di alcuni materiali?
Tra i documenti emergono anche considerazioni interne che raccontano lo stupore e la preoccupazione di alcuni apparati istituzionali. In una mail del 7 gennaio 2020, un assistente procuratore del Southern District of New York segnalava come Trump avesse viaggiato sull’aereo privato di Epstein molto più di quanto fosse stato noto fino a quel momento: almeno otto voli, uno dei quali in compagnia di una giovane donna di vent’anni. Anche qui, elementi che non costituiscono automaticamente prova di comportamenti penalmente rilevanti, ma che alimentano interrogativi e rafforzano l’immagine di una rete di relazioni rimasta a lungo opaca.
Non mancano poi, nei fascicoli, riferimenti a ipotesi che lambiscono territori ancora più delicati. In uno di questi documenti, un agente dell’FBI riporta che il fratello del finanziere, Mark Epstein, avrebbe contattato il National Threat Operation Center affermando di temere che Jeffrey fosse stato ucciso perché “stava per fare dei nomi”. In quelle dichiarazioni, viene persino citato il sospetto che l’omicidio sarebbe stato autorizzato ai massimi livelli. Accuse gravissime, che inevitabilmente sollevano attenzione mediatica, ma che al momento restano nel campo delle ipotesi prive di riscontro ufficiale.
Di fronte alla pubblicazione di materiali così sensibili e dirompenti, il Dipartimento di Giustizia ha scelto la linea della chiarezza istituzionale. In una nota, ha ribadito che alcune di queste accuse sono «false e infondate» e che, se avessero avuto anche solo un minimo grado di credibilità giudiziaria, «sarebbero già state utilizzate contro Trump». La scelta di pubblicarle ugualmente è stata motivata con la volontà di rispettare un principio di trasparenza e di tutela delle presunte vittime di Epstein, ma accompagnata dalla ferma precisazione che l’esistenza di un documento non equivale alla verifica del suo contenuto.
Il punto resta anche politico. Il presidente degli Stati Uniti si ritrova ancora una volta associato al nome di Epstein in un contesto pubblico, con accuse che – pur definite “infondate” dal Dipartimento di Giustizia – rimangono scritte nero su bianco in documenti ufficiali. In qualunque altro momento storico, una tale combinazione di materiali, presunte testimonianze e suggestioni giudiziarie avrebbe probabilmente fatto esplodere uno scandalo capace di spostare opinione pubblica e equilibri di potere. Oggi, invece, il clima sembra diverso.
Negli Stati Uniti, la percezione collettiva è meno colpita di quanto ci si potrebbe aspettare. L’attenzione degli elettori appare concentrata su altre priorità: l’economia, il costo della vita, la sicurezza sociale, l’incertezza internazionale. Molti americani guardano a queste rivelazioni come a vicende appartenenti a un passato torbido, già visto e già metabolizzato, quasi un rumore di fondo rispetto alle urgenze quotidiane. Il cosiddetto “Trump-gate” legato a Epstein rischia così di restare confinato in una dimensione più mediatica che politica, più simbolica che realmente determinante negli orientamenti dell’opinione pubblica.
Resta però l’effetto dirompente sul piano dell’immagine e della credibilità istituzionale. Che le accuse siano false, infondate o prive di riscontri non cambia il fatto che i documenti esistano, che il nome del presidente compaia accanto a quello di Epstein, che una parte dell’apparato federale abbia ritenuto necessario mettere per iscritto, archiviare e poi rendere pubbliche queste segnalazioni. È il riflesso di un tempo in cui la relazione tra potere, scandali sessuali, gestione della verità e percezione pubblica si è fatta sempre più complessa, frammentata e difficile da governare.
E mentre la giustizia si muove secondo le sue regole, distinguendo tra ciò che è verificabile e ciò che resta nel limbo delle accuse prive di fondamento, la politica e la comunicazione continuano a fare i conti con ombre che, anche quando non trovano riscontro giudiziario, rimangono sospese nell’immaginario collettivo. In questo equilibrio instabile tra verità, narrazione e memoria, il caso Epstein dimostra ancora una volta di essere ben lontano dall’essere solo una vicenda del passato.







