Chi ha paura di Mamdani? New York soppesa il salto: entusiasmo under 30, file ai seggi e timori per la reazione scomposta di Trump

Piove sottile, quella pioggia fastidiosa che a New York s’insinua nel colletto e appanna i finestrini della metro. Eppure fuori dal seggio di Park Slope, alle 6.45 del mattino, la fila è già lunga. Zaini fradici, thermos stretti tra le dita, cappucci tirati su e sguardi che oscillavano tra stanchezza e aspettativa. Nessuno si lamenta. Nessuno scrolla le spalle. Sembra piuttosto che tutti sapessero di trovarsi in una parentesi storica, in quel rumore di gocce e respiri che anticipa un cambiamento prima ancora che accada. «Non è che votiamo solo un sindaco», mormora Javier, 24 anni, nato nel Queens da genitori dominicani, mentre stringe un volantino ormai zuppo. «Stiamo votando l’idea di essere visti».

Qui non è un concetto astratto. A New York essere visti significa sopravvivere a un affitto che divora tre quarti di stipendio, a due lavori senza assicurazione sanitaria, alle sirene che rimbombano tra i vetri di Manhattan e le serrande del Bronx. Significa esistere in una città che accoglie tutti ma ascolta pochi. Ed è in questo vuoto — sociale, economico, emotivo — che è esploso il fenomeno Mamdani.

Zohran Mamdani, 34 anni, musulmano, figlio di un’India lasciata e di un’Uganda appena sfiorata, cresciuto tra case popolari e sogni ostinati del Queens, oggi è il nome che percorre la città come un sussurro teso. Socialista dichiarato, volto giovane, voce dura e gentile allo stesso tempo, promessa di un’altra New York possibile.

Alle porte di Crown Heights, un gruppo di ragazze appende striscioni fatti a mano sotto la pioggia. «Let us breathe», lascia respirareci. È un messaggio politico ma sembra un grido umano, quasi fisico. Una di loro, Leila, 19 anni, hijab lilla e voce sottile, dice: «Quando è arrivato Trump sembrava fosse finita. Poi c’è stata Gaza, molti di noi hanno smesso di sentirsi americani. Con lui torniamo a sperare che America possa voler dire ancora noi e non solo io». Pausa. Sospira. «È strano. Non gli chiediamo miracoli. Gli chiediamo dignità».

La scena cambia completamente qualche fermata più in là, nel cuore glassato di Midtown. Grattacieli come cattedrali finanziarie. Uomini e donne in giacche costose che guardano i giovani come si guarda un fenomeno atmosferico imprevedibile. «L’ultima volta che ho visto questa energia è stato Obama 2008», dice un analista, infilando il badge in un tornello dorato. «La domanda è: reggerà al primo compromesso?».

Il dubbio è ovunque. Soprattutto tra chi ricorda un’altra promessa travolta dalla realtà: Obama, partito come lampo e finito a trattare con i poteri che aveva promesso di superare. Stavolta però c’è una differenza: la rabbia è più cruda, la generazione più ferita. Nata tra crisi finanziarie, pandemie, precarietà e debiti studenteschi, non ha memoria di un mondo solido. Per loro, il cambiamento non è un sogno: è un’ancora.

A Mott Haven, Bronx Sud, un padre spinge un passeggino e ride amaro: «Quando ero ragazzo volevo diventare qualcuno. Ora voglio solo che mio figlio non debba lasciare questa città perché non possiamo permettercela». E intorno bambini che giocano tra palazzi consumati e graffiti sulle serrande, mentre una metropolitana S4 lancia il suo lamento metallico sul ponte sopraelevato.

Nel pieno della giornata, la pioggia smette. E la fila ai seggi non diminuisce. Giovani, famiglie, immigrati di prima e seconda generazione, studenti, baristi, artisti frustrati, insegnanti con stipendi troppo bassi. La nuova armata metropolitana del sogno nudo: trasporti gratis, case accessibili, welfare locale, supermercati comunali. Utopia? Forse. Ma qui l’utopia ha la forma di una sopravvivenza dignitosa.

Intanto, nei bar di Williamsburg, accanto a cappuccini di avena e laptop, rabbini discutono sottovoce. L’eco di Gaza pesa. Il trauma dell’11 settembre brucia ancora. Le comunità ebraiche osservano, interrogano, temono, e spesso votano compatte. Un anziano rabbi racconta: «La memoria non è una fotografia. È una ferita che si apre quando il vento cambia». Ma poi aggiunge piano: «E forse deve cambiare».

A sera, Union Square diventa una piazza liquida di luci. Ragazzi ballano sotto casse portatili, altri distribuiscono volantini, qualcuno recita versi. Un cartello recita: “We are New York too”. Una ragazza, capelli viola e piumino argentato, guarda i taxi scorrrere. «Mi hanno sempre detto che New York non è per tutti. Che devi essere forte, ricco, invincibile. Basta. Vogliamo una città dove chi lavora non annega. Dove vivere non sia una punizione».

Poi ride, alza gli occhi verso i palazzi: «Per una volta sogniamo una città a cui appartenere». È questo, alla fine, il vento che soffia tra i mattoni umidi e i vetri di Manhattan: la voglia ostinata di far parte di qualcosa. Di essere cittadini, non comparse. La notte cala. Le luci restano. La città non dorme mai, si sa. Ma stavolta non è solo frenesia: è attesa. Una delle sue attese più rare, quelle che fanno trattenere il fiato. Perché se domani Mamdani vincerà, New York non avrà solo un nuovo sindaco. Avrà scelto chi vuole essere.