«Ci hanno scippato il Mondiale, ma non la nostra dignità»: il grido della Palestina dopo il rigore che ha spento un sogno

Per un attimo, la guerra si era fermata. Gaza era sempre lì, martoriata e devastata, ma nei campi profughi, tra le rovine di Khan Younis, nei vicoli di Rafah e tra le tende di fortuna allestite da chi ha perso tutto, qualcuno aveva ancora il cuore che batteva per qualcosa che non fosse la paura. Batteva per una partita di calcio. Per una maglia. Per una squadra che si chiamava semplicemente Palestina.

Poi, al minuto 82 di Palestina-Oman, un rigore mai visto, mai confermato, mai esistito. Un rigore che ha scippato un sogno e acceso l’ennesima ferita. «Non posso dire ai miei ragazzi che hanno perso. Non posso guardare in faccia mia madre, i miei fratelli, che ci guardavano da sotto una tenda, e raccontare loro che questo è stato solo un errore», racconta Ehab Abu Jazar, ct della Nazionale palestinese. Lui, originario di Khan Younis, ha la voce spezzata ma lo sguardo fermo. E una rabbia che si maschera sotto strati di dignità.

La squadra era in ritiro in Giordania, l’unico luogo sicuro dove potersi allenare. «Eravamo professionisti, ma anche figli, fratelli, padri. Allenarsi sapendo che la tua gente è sotto le bombe non è qualcosa che puoi spiegare. Mia madre dormiva in una tenda, insieme a tutta la famiglia. Si sono riuniti con dei pannelli solari per vedere le partite. Non era solo calcio, era un respiro. Era vita».

Per questo, quel rigore pesa come un crimine. «L’arbitro non ha controllato il VAR. Non c’era nulla. Eppure ci hanno eliminati così, mentre la nostra gente esultava, si aggrappava a una speranza, a un motivo per non sentirsi invisibile. Quando il pallone è entrato in rete, non era solo una partita persa. Era un’ingiustizia collettiva, l’ennesima».

Molti dei giocatori hanno famiglie nei campi profughi in Libano, in Cisgiordania, o sotto assedio a Gaza. «Eppure hanno messo gli scarpini e sono scesi in campo. Hanno cantato l’inno, hanno pianto, hanno segnato. Nessuno di loro ha chiesto qualcosa. Solo di essere ascoltato. Di essere visto. Di esistere». E invece, anche in campo, è tornata quella sensazione che i palestinesi conoscono fin troppo bene: essere ignorati, respinti, silenziati.

La Federazione ha presentato un reclamo ufficiale alla FIFA. Abu Jazar non ci crede troppo: «Dal 1948 chiediamo giustizia. E siamo ancora qui, in piedi. Non ci aspettavamo regali, ma almeno rispetto delle regole. Siamo trattati come una comparsa. Ma lo sport dovrebbe essere equità, non complicità».

La voce si incrina quando parla di ciò che succede oltre il campo. «Ogni giocatore ha perso qualcuno. Nessuno a Gaza è stato risparmiato. Io ho perso amici, e la mia unica ossessione ora è salvare mia madre. Ogni telefonata potrebbe essere l’ultima. Ma siamo cresciuti così: ogni giorno è una sfida tra sopravvivenza e disperazione».

Per 90 minuti, racconta, il mondo ha visto la Palestina sorridere. «Il nostro popolo non aveva mai avuto il privilegio di sognare in diretta. Quei bambini, quegli anziani, tutti uniti per un pallone. E ora siamo qui, a raccogliere i cocci, a consolare ragazzi che avrebbero fatto la storia. Una generazione d’oro. Ma gliel’hanno negata».

Nel finale, arriva anche una lezione amara. «Mi chiedono se c’è spazio per il perdono. Ma non è questione di perdono. È questione di giustizia. Finché non saremo riconosciuti come esseri umani, uguali agli altri, non potrà esserci pace. Solo quando mi vedranno per ciò che sono – un uomo, un allenatore, un figlio – potremo smettere di lottare. Ma fino ad allora, continueremo. Perché questa maglia, ora più che mai, è tutto ciò che ci resta».