Dagli Emirati all’Arabia Saudita, segnali di apertura e cambiamento

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Dagli Emirati all’Arabia Saudita, segnali di apertura e cambiamento: è l’inizio di una nuova era o solo un fragile equilibrio in evoluzione?

Qualcosa si muove nel cuore del mondo arabo. Lentamente, con le cautele proprie di società complesse e profondamente segnate dalla storia, ma con una direzione che sembra sempre più chiara: modernizzazione, apertura verso l’Occidente, ricerca di un nuovo equilibrio tra tradizione e globalizzazione.

Gli Emirati Arabi Uniti guidano da anni questo processo. Dubai e Abu Dhabi si sono trasformate in hub finanziari e culturali, ospitando eventi internazionali, favorendo l’ingresso di capitali stranieri e promuovendo riforme interne, sia pur parziali, in ambito economico e sociale. La recente liberalizzazione di alcuni settori lavorativi, l’apertura al turismo globale, e la promozione di una “tolleranza controllata” nei confronti di religioni e stili di vita diversi, segnalano una chiara volontà di collocarsi come ponte tra il mondo arabo e quello occidentale.

Ma le novità più significative arrivano forse da Riyadh. L’Arabia Saudita, da sempre simbolo del conservatorismo wahabita, sta mandando segnali inequivocabili. Il progetto Vision 2030 del principe ereditario Mohammed bin Salman si pone obiettivi ambiziosi: diversificare l’economia, ridurre la dipendenza dal petrolio, e proiettare il regno verso una modernità compatibile con la sua identità islamica. I concerti pop, l’ingresso delle donne negli stadi, il rilancio di una cultura dell’intrattenimento, e persino l’apertura a investimenti nel turismo non religioso sono solo alcune delle tappe visibili di un cambiamento profondo.

Mohammed bin Salman

Non si può parlare ancora di una svolta storica definitiva – i nodi politici, religiosi e geopolitici restano complessi – ma si intravede la fine di un’epoca: quella dell’isolamento identitario, delle rigidità ideologiche, della chiusura sistematica verso il mondo esterno.

A spingere verso questa nuova fase sono diversi fattori. Innanzitutto la necessità economica: il crollo del prezzo del petrolio durante la pandemia ha mostrato la vulnerabilità di economie mono-settoriali. Poi c’è la pressione demografica: una popolazione giovane, connessa, istruita e sempre più impaziente di accedere a opportunità e libertà simili a quelle dei coetanei europei o americani. Infine, pesa anche la ridefinizione degli equilibri internazionali, con un’America tornata protagonista sotto la presidenza Trump e un’Europa che cerca spazi di dialogo e cooperazione, soprattutto sul fronte energetico e della sicurezza.

Il mondo arabo, o almeno una parte significativa di esso, sembra dunque voler uscire dall’angolo della storia, non più solo teatro di conflitti e crisi, ma attore proattivo nel definire il proprio destino globale.

Resta da capire se questa transizione sarà stabile e inclusiva, o se resterà confinata alle élite e ai grandi centri urbani. La posta in gioco è alta: tra aperture strategiche e resistenze profonde, il futuro della regione potrebbe essere molto diverso da quello che abbiamo conosciuto finora.

Una stagione si sta chiudendo. Se sarà davvero l’alba di una nuova era, lo dirà solo il tempo. Ma il cambiamento è in atto. E stavolta, potrebbe non essere reversibile.