Dalle Termopili al Vietnam fino all’Ucraina: perché la storia smentisce Trump e dimostra che nei conflitti non vince sempre il più grande

“Saranno le dimensioni a vincere. La Russia è molto più grande e molto più forte”. Con questa frase, pronunciata in un’intervista a Politico sulla guerra tra Russia e Ucraina, il presidente Trump ha rilanciato l’idea che nei conflitti la superiorità numerica sia decisiva. La storia militare, però, racconta qualcosa di diverso. Dai racconti biblici fino alle guerre contemporanee, sono numerosi i casi in cui eserciti più piccoli hanno sconfitto, o quanto meno logorato fino alla resa, avversari immensamente più potenti. Gli strateghi li definiscono “conflitti asimmetrici”, e i dati confermano che Davide non perde quasi mai in partenza.

Il primo esempio simbolico affonda nelle pagine dell’Antico Testamento, con la sfida tra Davide e Golia. Il pastore ebreo affronta il gigante filisteo armato fino ai denti con una fionda e una pietra. Un solo colpo, il gigante cade, e Davide lo finisce con la sua stessa spada. Da allora l’immagine dell’outsider che trionfa sul potente è diventata una metafora universale.

Anche la Grecia antica offre esempi che smentiscono l’idea della forza dei grandi numeri. Nel 490 avanti Cristo, a Maratona, diecimila greci affrontano oltre ventimila persiani sbarcati con seicento navi. Con una manovra audace, i greci riescono a circondare il nemico e a infliggergli una sconfitta durissima, perdendo meno di duecento uomini contro più di seimila persiani. Dieci anni dopo, alle Termopili, Leonida e i suoi trecento spartani resistono per giorni contro l’immenso esercito di Serse in un punto stretto del terreno, permettendo al resto della Grecia di organizzare la difesa che porterà, pochi mesi più tardi, alla vittoria navale di Salamina e al ritiro definitivo dei persiani.

Nel mondo romano, la rivolta di Budicca del 61 dopo Cristo dimostra ancora una volta quanto il terreno e l’organizzazione contino più dei numeri. 230 mila ribelli celti circondano circa diecimila legionari romani che, ritirandosi in una stretta vallata, riescono a sfruttare la formazione compatta e la cavalleria laterale per annientare un nemico numericamente soverchiante. Alla fine i ribelli contano circa ottantamila morti, le perdite romane sono di poche centinaia.

Nel Medioevo, nel 1315, a Morgarten, un migliaio di contadini svizzeri sconfiggono tremila soldati austriaci attirandoli in un passaggio obbligato lungo un lago. Colpiti dall’alto con pietre, frecce e poi con le alabarde, gli austriaci subiscono oltre millecinquecento morti, mentre le perdite svizzere sono minime. Da lì nasce la reputazione militare degli svizzeri e la futura Confederazione.

Nel 1415 ad Agincourt, in Francia, cinquemila inglesi guidati da Enrico V affrontano ventimila francesi. Il terreno fangoso e stretto tra due boschi, unito alla micidiale efficacia degli arcieri inglesi, ribalta il destino dello scontro: i francesi perdono circa quattromila uomini, contro appena seicento inglesi.

Nel 1526, a Panipat, nell’attuale India, Babur, discendente di Gengis Khan, affronta con appena dodicimila uomini l’esercito del sultano Ibrahim Lodi, forte di circa centomila soldati e mille elefanti da guerra. Sulla carta non c’è partita. Ma Babur costruisce una barriera di carri legati tra loro, protetti da cannoni e archibugi, e costringe il nemico ad attaccare frontalmente in uno spazio ristretto. Gli elefanti, terrorizzati dall’artiglieria, travolgono le stesse truppe di Lodi. Il sultano viene ucciso e decine di migliaia di uomini cadono sul campo. Nasce così l’Impero Mughal.

Nel Novecento, la guerra d’Inverno tra Unione Sovietica e Finlandia mostra ancora una volta come la forza dei numeri non basti. Centottantamila soldati sovietici invadono la Finlandia nel 1939, convinti di conquistarla rapidamente. Le unità finlandesi, piccole e mobili, combattono sugli sci, colpiscono e si ritirano nel gelo. La Russia otterrà parte del territorio, ma la Finlandia manterrà l’indipendenza.

Lo stesso copione si ripete nella guerra d’Algeria, dal 1954 al 1962. La Francia schiera oltre quattrocentomila soldati contro circa trentamila combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale. Dopo otto anni di guerriglia, attentati e repressione, Parigi è costretta a lasciare la colonia.

Nel 1967, nella guerra dei Sei Giorni, Israele sconfigge in meno di una settimana eserciti arabi numericamente superiori e triplica i propri territori. Ma quella vittoria apre una nuova fase del conflitto mediorientale che dura tuttora.

L’esempio moderno più noto resta il Vietnam. Una superpotenza nucleare come gli Stati Uniti, con una forza complessiva di circa un milione e mezzo di uomini, viene logorata da un avversario inferiore per numero e mezzi. Guerriglia, tunnel, appoggio della popolazione e opposizione interna negli Usa conducono al ritiro americano e alla caduta di Saigon nel 1975.

In Afghanistan, tre imperi – britannico, sovietico e americano – sono stati respinti. Nel 2021 gli Stati Uniti si sono ritirati dopo vent’anni di guerra, lasciando il Paese ai Talebani, in una scena che ha ricordato l’evacuazione di Saigon.

Anche l’invasione dell’Ucraina rientra in questo schema. Quando Mosca attacca, controlla già Crimea e parte del Donbass. Nei primi mesi arriva a occupare circa il 30 per cento del territorio. Dopo quasi quattro anni, nonostante bombardamenti e perdite enormi, ne controlla circa il 19 per cento. Una superpotenza nucleare non è riuscita a piegare rapidamente un Paese più piccolo, meno popoloso e meno armato.

Infine, la caduta del regime siriano di Bashar Assad davanti all’offensiva dei ribelli guidati da Ahmed al-Shara dimostra ancora come eserciti demoralizzati possano dissolversi di fronte a forze irregolari motivate.

Gli studi confermano che non si tratta di casi isolati. Una ricerca dell’Università di Cambridge del 2011 e studi precedenti mostrano che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, il più debole ha vinto in oltre la metà dei conflitti asimmetrici. Una conferma empirica di ciò che la storia racconta da secoli.

Alla luce di questa lunga sequenza di precedenti, la frase di Trump sulle “dimensioni che vincono” appare più come uno slogan che come una legge della guerra. I conflitti mostrano che non bastano i numeri, né l’arsenale. Contano il territorio, la durata, la motivazione, la capacità di sopportare i costi politici e umani. Ed è su questo terreno che, da tremila anni, Davide continua spesso a mettere in crisi Golia.