Quando Benjamin Netanyahu proclama che “non ci sarà mai uno Stato palestinese”, non si limita a esprimere un’opinione politica: traccia una linea che rischia di condannare Israele a un futuro di isolamento e conflitti interminabili. L’invasione di Gaza è già una tragedia immensa: quartieri rasi al suolo, decine di migliaia di vittime e centinaia di migliaia di palestinesi costretti a fuggire verso un nulla disperato, senza rifugi né speranze.
Da decenni, Israele e Palestina sono intrappolati in un ciclo di violenza senza fine: intifade, attentati, operazioni militari e negoziati falliti che non hanno prodotto né pace né sicurezza durature.
Oggi nei Territori palestinesi più di 5 milioni di persone sopportano una condizione di vita insostenibile, mentre in Israele vivono circa 7 milioni di ebrei e 2,2 milioni di arabi. Questi numeri non sono solo statistica, ma rappresentano le dimensioni di un dramma che si può affrontare solo con la diplomazia, non certo con la guerra continua.
L’offensiva su Gaza City, presentata come necessaria per la sicurezza, sta invece provocando un disastro umanitario senza precedenti. Dal 7 ottobre 2023 a oggi, i morti palestinesi a Gaza superano i 65.000, con oltre 165.000 feriti, molti dei quali civili innocenti. Ogni giorno decine di persone muoiono sotto i bombardamenti, mentre circa 400.000 fuggono disperatamente verso il sud della Striscia, senza trovare rifugio. E tra questa folla in fuga, la paura è senza confini. Il rischio più tragico resta la sorte degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, messi in serio pericolo da questa escalation senza fine.
La strategia della guerra senza fine e senza confini rischia di ritorcersi contro Israele. Hamas, che ricordiamolo è un gruppo terroristico che ha occupato la Striscia da molti anni, pur fortemente indebolito militarmente, guadagna terreno politico e simbolico. Ogni bombardamento alimenta la narrazione del martirio e del sacrificio, accrescendo il consenso tra i palestinesi e nella più ampia opinione pubblica araba e musulmana. Israele combatte così un nemico che, paradossalmente, contribuisce a mantenere vivo l’odio.
L’illusione tragica dell’annessione.
Pianificare l’annessione o un controllo diretto di Gaza significa aprire un varco verso un vicolo cieco fatale. La Striscia, piccola, densamente popolata e povera di risorse, si trasforma così in una polveriera, una bomba a orologeria pronta a detonare in qualsiasi momento. Gestire milioni di persone ridotte alla fame e alla disperazione significa perpetuare una condizione di conflitto permanente, dove la sicurezza è solo un sogno lontano.
L’Onu ha denunciato il genocidio in maniera chiara e netta. Perché è inequivocabile quello che sta accadendo: crimini di guerra che sono diventati un vero e proprio genocidio. Un rapporto dettagliato della Commissione indipendente d’inchiesta Onu accusa Israele di pratiche mirate a distruggere fisicamente e sistematicamente il popolo palestinese, imponendo blocchi che negano accesso a cure mediche, acqua e cibo, causando un massacro indiscriminato con effetti devastanti soprattutto sui bambini. Provocando una vera e propria carestia. L’isolamento politico e morale di Israele cresce nel mondo e si fa sempre più grave.
Il rifiuto categorico di uno Stato palestinese è la vera trappola che condanna la regione a un futuro di odio, distruzione e disperazione. Israele ha pieno diritto alla sicurezza, ma anche i palestinesi hanno un diritto inalienabile alla terra e a un futuro dignitoso. Negare questo diritto non è solo un errore: è un acceleratore dell’odio che distrugge ogni possibilità di dialogo e allontana Israele dalla comunità internazionale.
Israele è ora di fronte a una scelta drammatica e storica: continuare sulla via della guerra senza fine, dell’occupazione e della distruzione totale, accumulando morti e centinaia di migliaia di profughi, o avere il coraggio di aprire uno spazio politico e diplomatico vero, capace di riconoscere i diritti fondamentali di entrambi i popoli. Ogni porta chiusa al dialogo pesa come un macigno sul futuro di generazioni israeliane e palestinesi.
Come ha scritto Daniela su il Foglio: «Come ben sappiamo, la grandezza di un leader politico non si misura nella capacità di evitare scelte difficili, ma nell’abilità di prendere decisioni impopolari quando l’interesse nazionale lo richiede. Begin firmò Camp David sapendo di dover restituire il Sinai e smantellare gli insediamenti di Yamit. Rabin strinse la mano ad Arafat nonostante decenni di terrorismo. Sharon si ritirò unilateralmente da Gaza contro l’opposizione della sua stessa base elettorale. Nessuna di queste decisioni fu perfetta o priva di conseguenze negative. Ma tutte riconobbero una verità fondamentale: in politica, come in medicina, spesso la cura perfetta non esiste e bisogna scegliere tra mali diversi, optando per quello minore.»
Oggi, Netanyahu sceglie invece il male peggiore: l’isolamento, il conflitto eterno, la rovina morale e politica di Israele.
La guerra a Gaza ha già causato oltre 65.000 morti palestinesi e 165.000 feriti – tra cui un’enorme quota di donne, bambini e anziani – con centinaia di migliaia di profughi senza casa e senza speranze. È un prezzo umano che Israele rischia di pagare per sempre, se non cambierà rotta con urgenza.
Israele non ha bisogno di altri muri né di altre bombe. Ha bisogno di coraggio politico, giustizia e pace, prima che sia troppo tardi.